sabato 29 ottobre 2016

Triathlon Challenge Forte Village - preview

A venti ore dalla partenza, anch'io sono pronto per il triathlon Challenge Forte Village!
Dente cariato dente cavato, gamba malata gamba amputata. Se fossi medico farei così. Per aggiustare la muta, per esempio, ne ho amputato le parti rovinate con le forbici del pollo. Ma sì, un po' di vaselina e andrà benissimo.
Si vedono su FB immagini di bici ripulite e luccicanti, pronte per la gara come madame per una serata all'opera. Io non oso pulire la bici perché non so come potrebbe reagire il cambio senza quello strato di morchia e poi, diciamo la verità, non ne ho voglia; preferisco stare qui al computer a scrivere cazzate. Tengo un po' di vaselina anche per la bici.
La preparazione più che carente è stata distruttiva. L'istruttrice di nuoto mi avrebbe aiutato ad avere un minimo di preparazione per la gara. “No, grazie; preferisco fare tecnica, almeno, forse, imparo a nuotare per la prossima”. Giovedì sono passato da “due ruote”, negozio del mitico Giuseppe Solla, dove tutti vanno a sistemare gli ultimi dettagli della bici o dell'alimentazione; io ho comprato slip e pinnette da piscina … e un tubetto di vaselina.
In teoria per la corsa dovrei essere pronto; è l'unico sport che ho praticato ma sono mesi che non vedo asfalto piatto. Giovedì sera ero a Cagliari e sono andato a fare una corsetta al poetto per vedere l'effetto che fa. 9 km completamente piatti corsi al presunto ritmo gara e ora, a poche ore dalla partenza, ho ancora polpacci e piedi doloranti. Tutto quel piattume mi ha rovinato ma con un po' di vaselina tornerà tutto a posto.
Gli amici mi lanciano sfide; io cerco di confonderli dichiarando “vince chi perde!” Questa volta non sono davvero competitivo e farò una semplice passeggiata. Fidatevi, su, fidatevi: prendetela la caramellina! Con un po' di vaselina andrà giù.
Si rinnova anche la sfida d'intelligenza con lo smartphone per capire a che ora mettere la sveglia visto che nella notte torna l'ora solare. Un'ora dopo? Ma se lui si sposta poi arrivo in ritardo ... e se spalmassi un po' di vaselina anche su di lui?
Ora mi immergo in una vasca piena di vaselina e poi sarò proprio pronto: scivolerò verso il traguardo, liscio come una supposta.

mercoledì 26 ottobre 2016

Io mi e me all'ultimo trail di Capoterra

Foto di Paolo Melis
Personaggi
  • Io – Osservatore e “blogger” di fama inter-rionale sempre in cerca di qualcosa da raccontare
  • Mi – Presidente della società organizzatrice. Vive di sorrisi e complimenti e combatte spiriti buromalefici
  • Me – Atleta partecipante. Vecchio animale da corsa, ormai un po' arrugginito ma sempre pieno di agonismo. È lui quello che mangia, che se mangiassimo tutti e tre ingrasseremmo.
  • Lo spirito buromalefico di A. che aleggia
Sabato, la vigilia. Alle 9 del mattino mi preparo ad andare al campo di gara per gli ultimi preparativi. Prima di uscire leggo le-mail e scopro che il comune di A. non ha ancora concesso l'autorizzazione alla gara. Nel castello di A. gli impiegati solerti hanno lavorato settimane a passarsi il nostro plico con senso del dovere e spirito di responsabilità e, proprio l'ultimo giorno, dopo avere pronunciato il “tutto a posto” si sono accorti che il plico doveva tornare all'ufficio di partenza per ulteriori studi ed approfondimenti.
Gli uffici oggi sono chiusi e Di Majo è proprio oggi in visita al castello col re di A., forse per partecipare anche lui alla visione dei nostri documenti e decidere con un sondaggio in rete se concedere o meno il nulla osta alla nostra gara; intanto, dopo avere chiesto aiuto al sindaco di Capoterra e al presidente regionale della FIDAL, andiamo avanti con i preparativi, prima sfiduciati, poi più combattivi e, piano piano, mi matura l'idea di prendermi la responsabilità di fare disputare la gara comunque.
Io intanto osservo stupefatto come rimbalzi burocratici fra uffici comunali possano intralciare una manifestazione che, a costo zero, porta benefici alla cittadinanza e al territorio mentre me si lamenta solo di non avere avuto il tempo di fare neanche oggi neanche un passo di corsa dopo la 60 km di Macomer
In tre che siamo, dimentichiamo la chiave dell'auto infilata nella portiera, in centro al paese. Anzi, il problema è proprio che in tre abbiamo un cervello solo e, chi ha infilato la chiave, quando è il momento di toglierla potrebbe non avere più accesso alla memoria ram. E poi è anche colpa dello spirito buromalefico di A. che ha distratto la nostra già deficitaria attenzione. A sera, intanto, il sindaco di Capoterra è riuscito a sentire quello di A. e ci dice “tutto a posto” che tradotto in latino significa “nulla osta” e un lungo soffio di sollievo fa sventolare i nastri segnaletici sul percorso. Non trovando la chiave dell'auto nelle tasche, mi faccio accompagnare a casa da Gavino.
Domenica mattina, io, vedo allo specchio mi e me con i capelli dritti, penso a quante foto con quei capelli dritti all'insù verranno scattate e pubblicate oggi su FB, e che forse il mondo sarebbe più bello senza ma dopo due passate con la mano a rastrello capisco che è una battaglia persa.
Mi preparo le birre da portare nella borsa frigo poi mi ricordo di avere dovuto lasciare l'auto in paese e prendo la bici lasciando, ahinoi, le birre a casa. In compenso il casco schiaccia i miei capelli dritti e il mondo diventa più bello. Quando arrivo alla macchina e trovo la chiave sulla portiera venti ore dopo averla lasciata, penso a quanto è buono questo mondo e che un solo paese del campidano e un ciuffo di capelli ribelli, non riusciranno a rovinarlo. O forse la mia auto è così brutta che nessuno l'ha voluta prendere.
Lo spirito di A., imperterrito, si materializza di nuovo sotto forma di barracelli che, non avendo ricevuto comunicazioni riguardo l'autorizzazione, hanno pensato che fosse loro dovere alzarsi presto la domenica mattina apposta per rompere i coglioni e rovinare una festa. Grande senso del dovere. Per fortuna il sindaco di Capoterra interviene di nuovo e se ne vanno via delusi, portandosi dietro un senso del dovere incompiuto e la sonnolenza della domenica mattina.
D'ora in avanti, tutto procede liscio. Intorno ho una vera squadra che gira senza un cigolio. Qualsiasi cosa ci sia da fare c'è sempre qualcuno disposto a farla. Gli atleti arrivano e il ritrovo si anima di un allegro brusio.
Io, il blogger, sono ormai più popolare di me, l'atleta in declino, anche se oggi sono mi, l'organizzatore, quello più salutato. Comunque io mi e me condividiamo molti amici ed è un vero piacere vedere in quanti sono venuti a trovarci.
Me - foto di Benedetto.
Traccio la linea di partenza come facevo da bambino, strisciando col calcagno sulla terra. Tutti dietro e allo sparo si parte. Enrico parte come un razzo verso la vittoria, me come una lumaca. Non ho avuto tempo di fare riscaldamento e ritrovo le stesse gambe che ho lasciato alla fine di 60 km di domenica scorsa. Non corro certo per vincere ma per vivere da dentro la gara che ho organizzato, per vedere se le segnalazioni sono sufficienti, per imprecarmi contro arrampicando su per il muro, per godere dei panorami, sudare, scendere a capofitto e poi dare tutto sugli ultimi divertenti saliscendi; sono stupito, è stato davvero bello, divertente e segnato benissimo; mi complimento da solo e poi lo estendo immediatamente a tutti i collaboratori che non solo hanno eseguito il compito ma, di loro iniziativa, l'hanno migliorato con piccoli accorgimenti. Arrivo settimo e terzo di categoria, posizione che soddisfa me. Dopo  mi reco vicino al traguardo ad aspettare i “vaffanculo” degli atleti stremati dalla salita del muro ma arrivano solo complimenti.
Alle premiazioni, io mi vedo che rifiuto di dare a me il premio di terzo di categoria SM50 consegnandolo al quarto. Oggi è il giorno di mi, che non vuole premi ma sorrisi e complimenti. Me, che è un po' sacchettaro, non gradisce e borbotta: “e cosa porto da mangiare a casa? Sorrisi? Non era meglio un bel pezzo di pecorino?”
A fine giornata, io, mi e me siamo stanchi ma molto soddisfatti. Ognuno ha raggiunto il suo obiettivo: io ho una storia da raccontare, la gara è riuscita davvero bene e mi sono riempito di sorrisi e complimenti e infine me la sono goduta correndo e mangiando con gusto.
Ci facciamo i complimenti. Ma non eravamo soli; non è stato il solito “menage a trois” interiore. C'era il mondo fuori, buono e bello, pieno di amici che hanno collaborato e di atleti che hanno voluto essere presenti.
Questo era "l'ultimo" trail di Capoterra ma visto il successo, io e me stiamo cercando di convincere mi ad organizzare almeno un "prequel".

venerdì 21 ottobre 2016

Sardinia Ultramarathon - spazi dilatati

2012 4h43
2013 5h09
2014 5h17
2016 5h44
Il percorso sembra sempre uguale ma si sta allungando, sempre di più, è evidente. Una dilatazione del tempo di circa 15 minuti l'anno che, di pari passo con il riscaldamento globale, sta cambiando per sempre questo pianeta.
La poco gloriosa gara del giorno prima mi ha lasciato le gambe indolenzite. Per non svegliarle, decido di calzare le scarpe-cuscino “hoka” ma non le trovo. Chi mi ha rubato le scarpe? Quelli che ieri bevevano acqua sono molto sospetti ma il colpevole sono io che le ho scordate ieri sull'auto di Nello, ormai tornato a Capoterra. Ho le adidas, abbastanza confortevoli ma che non ho mai usato per corse lunghe. Mentre mi preparo, le hoka tornano a Macomer grazie a Benedetto e Gavino ma ormai ho calzato le altre e non ho voglia di cambiarle. Le lascio al ristoro del 30esimo per emergenza. Parto con Vincenzo, dietro alla prima donna, mentre il trio di testa si allontana e il podio è fatto. Ci raggiunge Walter, l'unico insieme a me ad aver corso tutti i 90 km di Baunei. Che ci facciamo qua?
Ad ogni passo sento dolere le cosce; sono tantissimi passi e altrettanti colpi. Mi costringono a rallentare per soffrire di meno Intorno al ventesimo mi raggiungono e superano Flavio e Bruno con Luca e Emanuele. Non riesco a seguirli, fa troppo male Non si sono accorti che il pianeta si è dilatato? Lo so solo io? Non riesco a seguirli, fa troppo male. Devo continuare con la mia stupida corsetta solitaria. Che senso ha proseguire? Salita, discesa pianura, non cambia niente. Ho una sola prospettiva: finire il primo giro, cambiare le scarpe e vedere se la situazione migliora. Altrimenti ritirarmi, se ne sono ancora capace. Da quando ho terminato la TdH temo di avere perso la capacità di ritirarmi. Il dolore “insopportabile” è diventato un possibile compagno di viaggio, sgradito certo, ma quando il treno è in corsa e non puoi cambiare scompartimento te lo devi tenere. Intanto mi raggiungono anche Mario e un altro che non conosco e anche loro mi staccano. Finalmente finisce il primo giro. Cambio scarpe. Indosso le hoka ed è come mettere uno strato di gommapiuma sul martello che mi colpisce le cosce ad ogni passo. È quasi piacevole soffrire di meno. Credo che riuscirò ad arrivare ma sarà molto lunga!
Einstein scoprì che, a grandi velocità, lo spazio si dilata. Io ho scoperto che lo stesso fenomeno si ripete identico a grandi lentezze. Le strisce tagliafuoco si infilano nei ghirigori dello spazio-tempo e ne escono allungate a dismisura. L'ultima curva prima del prossimo ristoro non è mai l'ultima e i ristori compaiono all'improvviso quando ormai si è persa ogni speranza.
La percezione della realtà è deformata, e in questi spazi dilatati, mi sento formica che fa tanti passetti quasi senza avanzare.
Al ristoro del 40esimo chiedo se abbiano una birra fresca . Non ce l'hanno ma ormai è chiaro che, anche questa volta, la mia gara si è trasformata in un giro dei bar.
Il riscaldamento globale si manifesta sotto forma di “caldo” proprio qui sulle tagliafuoco intorno al monte sant'Antonio provocando fenomeni fisiologici catastrofici come “sudore”. Ogni tanto alzo lo sguardo e mi appare un panorama infinito o un bel bosco o ancora un nuraghe che non avevo mai notato. Sono sprazzi di sollievo. All'improvviso ecco uno dei carinissimi figli di Leonarda. “Cosa vuoi da bere?” “Chiedi se hanno una birra fresca” e il ragazzino corre molto più veloce di me a portare l'ordine. È il ristoro del 55esimo, l'ultimo prima dell'arrivo; una gentile signora mi porge la birra e un uomo con indosso maschera e boccaglio mi offre da mangiare. “Ma dov'è Antioco?” gli chiedo. La signora aggiunge “se finisci tutta la birra ti regalo una banana” La guardo bene … “cazzo, non ti avevo riconosciuto!” Spazi dilatati, deformazioni, riscaldamenti globali, donne uomo, questo pianeta è sempre meno ospitale ma mi viene da ridere. Non ho mai fumato una canna così stupefacente.
Non mi resta che arrivare, non vedo l'ora. All'arrivo mi aspettano festeggiamenti da eroe, birre senza fine e quella sensazione di ebrezza da fatica che fa alzare gli angoli della bocca in un sorriso permanente. L'anno prossimo il percorso sarà ancora più lungo, lo so, e soffrirò ancora di più ma non potrò perdermi tutto questo.

mercoledì 19 ottobre 2016

Sardinia Ultramarathon - il prologo

Di solito, quando un koala scende dall'albero, è perché è arrivato il periodo della riproduzione. Da questo punto di vista, anche questa volta, mi andrà buca ma io sono un koala un po' anomalo, poco poco meno peloso, e sono qui anche per la festa, per riempire di vita la mia esistenza ed è quello che, con l'aiuto degli splendidi amici di Macomer, riuscirò a fare anche questa volta.

Scarpe rotte e pur bisogna andar. Sabato due giri di 10 km per il prologo. Le gambe non stanno male ma sono ancora appesantite dall'UTSS; le scarpe si stanno squarciando ma dovrebbero resistere fino all'arrivo. Dopo i primi sei o sette chilometri, brillanti come un'argenteria dimenticata in una vetrina impolverata, sono costretto a rallentare. La vaselina non basta, ci vorrebbe il sidol. Non sono più abituato ad andare veloce e, soprattutto in discesa, schiena e cosce subiscono duri colpi da 9.8 metri al secondo quadrato. Rinuncio alla gloria e punto al podio di categoria fra i vecchietti ma devo guardarmi alle spalle. Bruno mi raggiunge al termine della discesa del primo giro, in salita si lascia staccare ma sento il suo fiato sul collo. Poi, a metà del secondo giro, sempre in discesa, Flavio mi supera a grande velocità. Sono irrigidito dal mal di schiena, le mie zampette pelose non riescono ad allungarsi e non riesco a seguirlo. All'inizio dell'ultima discesa, anche Bruno mi passa a velocità doppia. Sono entrambi forti ma finora li avevo sempre superati in gara. Un incubo! Sto ancora sonnecchiando? Chi sono diventato? Forse sono ancora sull'albero e mi devo accontentare di guardare passare la vita e del terzo posto di categoria.
In compenso, a tavola, gli esercizi di masticazione e deglutizione mi vengono in aiuto e non ce n'è per nessuno. Flavio e Bruno bevono una strana bevanda trasparente. Mi avvicino, la guardo attentamente, l'annuso e i miei sospetti diventano certezza: è acqua! Pur di battermi anche domani, sono ridotti a questo! Acqua – roba da piscina – con la pecora in cappotto! Io non sono qui per dimostrare qualcosa a qualcuno, tantomeno a me stesso. Sono qui per la festa e l'acqua la bevo facendo tecnica dorso, non ora, grazie.
Dopo pranzo, con Carletto, parliamo male dei giovani d'oggi; poi mi rifugio nel bosco in cerca di silenzio ed emozioni. Ormai il sole è tramontato ma c'è una luna strapiena, gonfia di astronauti luminosi. Intrecci di rami disegnano il cielo. Quando i canti e le urla si placano capisco che hanno imbavagliato il bardo e stanno tutti lavorando con le mandibole e dirigo i miei passi incerti fra pietre e gradini invisibili verso la colonia. Un cinghiale scappa, il bardo è legato, obelix mangia; è il secondo banchetto in poche ore; sembra che sia il compleanno di Tonino, almeno questo è quello che sussurra Antioco.
Di solito, quando un koala scende dall'albero, è perché è arrivato il periodo della riproduzione. Quando scende la notte, nelle camerate dell'ex colonia ECA serpeggia il panico. Per tranquillità di tutti, trascino la mia branda nel salone davanti al camino. Dimentico di mettere il cartello di Benedetto: “atleta a riposo. Donne, ripassate in altro momento” ma, nonostante questo, nessuna passerà.

venerdì 14 ottobre 2016

La breve vita del koala

“Da domani faccio il koala: non fanno un cazzo e vivono cent'anni”. Vale la pena provarci.
I koala non fanno altro che masticare e sonnecchiare, se non nel periodo della riproduzione. Secondo Gigi, essendomi già riprodotto a sufficienza, potrei stare anche più tranquillo e fare una vita da vecchio koala in pensione dall'attività riproduttiva.
La metamorfosi è stata immediata. Dopo l'arrivo ho passato quasi 6 ore sonnecchiando in prossimità del traguardo saldamente incuneato sul mio eucalipto ad aspettare Paolo mangiando germogli di malloreddus e foglioline di vino e guardando giù .
Ho visto Matteo detto Stefano e Cristina detta Stefano, stanchissimi ma sempre sorridenti nonostante tutto il lavoro e le imprecazioni che i maledetti organizzatori di una gara così massacrante si prendono sempre ingiustamente.
Ho visto quelli già arrivati: tutto il podio maschile con i fortissimi Marco Pajusco e Nicola Bassi e gli amici Stefano ed Enrico che, più koala di me, si addormentava in qualsiasi posto, perfino sul tavolo della giuria.
Poi, via via, vedevo quelli che arrivavano; Ivan, che rivendicava il titolo di “primo dei veri sardi” Gianni che mostrava fiero i suoi piedi a tutti: “guarda che belli, neanche una vescica, neanche un'unghia nera”, Massiccione che, non ricordando i nomi, chiamava tutti “massiccio” o, quelli con cui era in confidenza, “Stefano”. Martina, ammutolita dalla fatica con lo sguardo rivolto in dentro, a cercare dentro di sé risposte alla grande domanda “ma chi me l'ha fatto fare?”; i volontari dei vari ristori che via via rientravano dopo il passaggio di Paolo, allegri e festosi quasi come se avessero bevuto un po' di birra.
E poi ho visto arrivare Paolo al limite del tempo limite e dell'umana resistenza, che si è gustato come pochi il traguardo e i festeggiamenti riservati all'ultimo.
Il giorno dopo, ho partecipato alla gita in barca alle stupende cale del golfo di Orosei. Giusto un paio di tuffi per rinfrescare il pelo e due passi sul granitino fine fine delle cale per svegliare le vesciche plantari dal torpore, poi, sonnecchiando sul mio asciugalipto, ho visto l'altro lato della magnifica Cala luna, quello fresco e riposante. Ho visto tantissimi amici che il giorno prima erano andati via prima del mio arrivo, oggi tutti un po' koala: Tore, Giuseppe, Vincenzo e Agnese che per fare l'ultima foto stava perdendo la barca del rientro.
Ritornato sul mio albero di Capoterra ho passato dieci giorni sonnecchiando e mangiando germogli di maiale e foglioline di cannonau. Nessuna corsa notturna, nessuna discesa a rotta di collo su sentiero, solo corsette da pensionato e qualche ora di uscita sonnecchiante sul mio bicicalipto.
Il koala però ora comincia a soffrire d'insonnia; masticare non basta a far smettere di girare i cento pensieri rotondi della vita. Le zampe scalpitano e i cent'anni del koala, per fortuna, sono già finiti. È già ora di scendere dall'albero. Domani e dopodomani sarò a Macomer per la sardinia ultramarathon a correre come una gazzella, mangiare come un maiale e a riempire di vita la mia esistenza.

lunedì 10 ottobre 2016

UTSS. Il giro dei bar – seconda parte

Bar di Cala luna, ore 12:40. km 47 dell'UTSS
Dov'è la birra? Foto di Michele Loi
Il mare è al di là della laguna con la sua magnifica acqua fresca e trasparente ma i segni vanno in direzione opposta dei sogni. “Non si passa dal mare? Avrei voluto fare il bagno” “l'hai già fatto”. È vero. Sono già bagnato fradicio di sudore ma non intendevo questo. Di là il fresco del mare, di qua il caldo, umido e opprimente, riempie la magnifica e maledetta codula, illuminata da un sole inesorabile fra oleandri sabbia e sassi e chiusa da pareti altissime che immobilizzano l'aria. Non si muove una foglia, la colonna sonora di Morricone fa da sottofondo a questa scena al rallentatore che invischia anche me. Accenno qualche passo di corsa solo nei rarissimi punti in cui la sabbia è compatta o i sassi sono piatti.
Ci metto mezz'ora ad uscire dalle sabbie mobili e, arrivato all'imbocco del sentiero, mi fermo a togliere la sabbia dalle scarpe. Mi raggiunge Marta Poretti, fresca e sorridente. Sale leggera con i bastoncini. La seguo alla distanza giusta per poter scambiare qualche battuta e tenere lo spazio libero davanti per il vento in faccia ma non c'è un filo d'aria. La salita continua interminabile. Le martellate sui genitali ora sono forti e precise. Il meraviglioso e l'orrido si mescolano in un mix stupefacente. La schiuma esce dalla pelle. Il prossimo bar tarda ad arrivare, forse l'hanno spostato o forse chiuso! Le borracce sono quasi vuote e sono in astinenza: è un'ora e mezza che non bevo una birra! Per fortuna, un paio di chilometri più su del previsto, annunciato da un odore di salsiccia arrosto, purtroppo non per me, ecco il bar del 54esimo. È affollato: ora i corridori si soffermano più a lungo. Sono le due passate, abbiamo superato le 8 ore di gara, c'è stanchezza nell'aria, si appiccica alla pelle e appesantisce il culo.
Bevo una lattina di ichnusa ghiacciata, riempio una borraccia con acqua e sali che non riuscirò a bere per la nausea – col passare delle ore mi è sempre più difficile trovare qualcosa di accettabile per lo stomaco – e l'altra con acqua, cola e mezzo limone spremuto. Dal recipiente della birra rubo due cubetti di ghiaccio: uno lo metto sotto l'ascella, l'altro lo passo in faccia, sul collo, cercando di alleviare – almeno per qualche secondo, almeno in qualche minuscolo pezzetto di pelle – il disagio del caldo e riparto ancora in salita. Sono sfatto ma ancora vivo. Marta è partita e non la vedrò più, Raffaele va più o meno alla mia velocità ma ha l'aria fresca di chi non fatica. Raggiungo Dimitri che, vaneggiando, dice qualche frase memorabile. Facciamo un pezzo di strada insieme ma quando io riprendo a correre lui non ne ha la forza. Correndo raggiungo e supero anche un altro ragazzo in crisi. Le crisi degli altri mi fanno sentire più forte di quanto non sia in realtà e, sulle alette di questo piccolo entusiasmo, riesco a svolazzare come un pollo senza quasi fermarmi fino al prossimo bar.
Km 61. Dopo la solita birra, riparto correndo, fiducioso, ma il prossimo bar non arriva mai. Il percorso è sempre piacevole ma non più entusiasmante e non basta a distrarmi. Mi sembra di correre veloce ma gli spazi sono dilatati. Se prima i chilometri erano pieni di meraviglia, ora sembrano vuoti e diventano lunghissimi. Sento tuonare in lontananza, nuvole basse diventano nebbia, i paesaggi si fanno spettrali e di nuovo affascinanti e il ristoro magicamente appare.
Al bar del settantesimo, i ragazzi aprono, per me, un nuovo fusto. “Bravo! Da dove vieni?” “Capoterra” rispondo. “Sei primo dei sardi”
Ma sono sardo? Più sardo di Gervasoni e Di Cosimo ma meno dei “nativi”. Non è chiaro, però questo titolo sarebbe per me motivo d'orgoglio. Dietro chi potrebbe usurparmelo? Gianni con una delle sue mitiche “progressioni Mureddu”? Non credo, si ferma troppe volte a pisciare. Mi immagino invece “massiccione” Zanda, Ivan Sedda o Stefano Frau comparire da dietro all'improvviso. Loro hanno fatto gare durissime e ora saranno meno morti di me. Ogni tanto mi sembra di sentire voci da dietro o rumori di passi ma sono solo fantasmi. Puntare ad un posto fra i primi dieci maschi e al titolo di primo dei sardi mi serve per avere uno stimolo a spingere ancora, a tenere un passo veloce a combattere la tendenza ad afflosciarmi verso “velocità zero”. Ogni volta che un fantasma mi chiama, mi volto e rispondo con una breve accelerazione o qualche passo di corsa.
Volevo il vento in faccia e la visuale libera? Eccomi accontentato. Da quando ho visto il forte Raffaele ripartire dal ristoro e sparire nella nebbia, ho viaggiato in perfetta solitudine.
Alle 17:25 arrivo al bar del 74esimo km. Ogni ristoro è stata una festa: accoglienza calorosa, cibo e bevande e un arrivederci al traguardo e questo è il più rumoroso di tutti: urla e campanacci; meglio del bar sport la domenica pomeriggio. Bevo con gusto il brodino caldo, oltre alla birra, naturalmente. Poi devo ripartire per ritrovare altre ore di solitudine e sofferenza.
L'80esimo non arriva mai. I chilometri mi sfuggono, infiniti. Non ho ancora acceso il gps e l'unico riferimento che ho è l'altimetria sul pettorale. Continuo a guardarla ma non capisco bene dove mi trovo: è rimpicciolita un milione di volte e mi servirebbe un microscopio elettronico per vederci bene dentro. Mi nasconde saliscendi, greti di torrente, ovili, pioggia e i dentini che invece si vedono ad occhio nudo, sono mostruosi canini mastica-muscoli. Perfino la birra mi ha stufato ed è sempre più difficile trovare una buona ragione per proseguire. “Se arrivo ho 2 punti per l'UTMB … e cosa me ne faccio? Se ne raccolgo 5 vinco una pentola?” Quando finalmente arrivo al ristoro dell'ottantesimo, decido di accendere il gps, voglio vedere passare i 10 km mancanti metro per metro per avere un segno tangibile che la fine si avvicina. Il primo chilometro passa facile, su strada, anche se si sale ancora. Poi comincia la discesa. Nella penombra mi appare un pendio quasi verticale. Sul ghiaione vedo segni strani, più che passi sembrano impronte di sederi. Guardo giù per vedere se ci sono cadaveri. La terra è resa scivolosa dalla pioggia ma, per fortuna, fra tutte queste pietre di terra se ne vede poca. Mi preoccupo, seriamente, per quelli che arriveranno dopo, fra le tenebre della notte e della stanchezza.
Più in là si torna su strada e si sale di nuovo. Da un fuoristrada una voce mi incoraggia: “mancano solo 5 km”. Riaccendo la frontale. Ormai è buio e sotto si vedono le luci dei paesi. Cerco di indovinare quale sia Baunei, dov'è il traguardo ma la mente è offuscata e viaggio sperduto con lo sguardo. Rientro nel bosco in un interminabile saliscendi; ogni eternità un chilometro passa e il gps vibra emozionato. Ormai dovrei essere arrivato all'ultima discesa. Il sentiero scende fra ghiaioni, rocce a picco e alberi, che illuminati dalla frontale offrono uno spettacolo a metà fra magia e incubo.
Vedo una luce! Qualcuno vede la mia e suona i campanacci. Il sentiero sbuca sulla strada; “ultimo chilometro!” Mi dicono. Stento a crederci e infatti saranno quasi due, ma ormai è tutto facile; la strada scende comoda verso Baunei. Entro in paese e seguendo le strisce catarifrangenti, mi infilo in un cortile; mi aggiro per un paio di minuti in cerca della via d'uscita per poi capire che i catarifrangenti erano messi lì per non fare ammaccare l'auto al figlio del proprietario quando rientra ubriaco dal bar. Anch'io sto rientrando ubriaco di stanchezza da un lunghissimo giro dei bar e mi sono lasciato guidare da quelle lucine. Ricordo che in un cortile di Loculi era svanita la mia vittoria alla point to point mtb di Irgoli ma questa volta da dietro non spunta nessuno e la vittoria del titolo di “primo dei quasi sardi” è mia. Se ho fatto questo, posso fare tutto. Anche il tempo che non passa mai alla fine passa. I chilometri, i cento metri, li ho visti scorrere, goccia a goccia sul gps. Il traguardo per quanto lontano sia, prima o poi arriva. Si fa aspettare per farsi bello: tanto più è sudato quanto più è bello e questo, dopo 14 ore di attesa, è davvero magnifico. Lo prendo a braccetto, con l'indice batto due tocchetti sulla tempia, sorrido con gli occhi e inizio a cercare germogli di eucalipto.

sabato 8 ottobre 2016

UTSS. Il giro dei bar – prima parte

Piazzale della chiesa di Santa Maria Navarrese, di notte; colonna sonora degli AC/DC. Alle 6 in punto un'orda di una cinquantina di zombie con zainetto sulle spalle e lampada in fronte parte all'inseguimento di qualcuno o qualcosa. Sto ancora sognando? Non svegliatemi; questa gara la voglio fare in anestesia totale, per soffrire di meno. Il gruppo si allunga subito sulla leggera salita che porta alla parte alta di Santa Maria Navarrese. Una decina di atleti si avvantaggia e quando arrivo al sentiero non li vedo già più; solo di tanto in tanto ne vedrò ancora la traccia spettrale che si allontana sotto forma di striscia di luce nel buio della notte; in quel punto luminoso c'è la gara con Pajusco e Bassi che tirano e gli amici Enrico e Stefano che proveranno a resistere; io oggi sono già lontano e dovrò cercare altre motivazioni per faticare e soffrire verso il traguardo. Oggi mi farò il giro dei bar
Pedra longa e la striscia di luce. Foto di Fabio Moro    
Il sentiero che da Santa Maria porta a pedra longa è pulitissimo. Me lo avevano anticipato su FB: “la prima parte è pulitissima, così l'impatto col calcare sarà meno brusco” “un po' come darsi martellate sui coglioni cominciando piano piano” avevo risposto. Ma è davvero bello, martellarsi dolcemente correndo su quei saliscendi con la guglia di pedra longa che prende forme sempre meglio definite con le prime luci dell'alba. Sto correndo dietro a Giuseppe Taras e K.. “Non mi piace stare in fila. Preferisco avere spazio davanti. Voglio la libertà del vento in faccia, dello spazio libero, del passo libero, della visuale libera per vedere i panorami ed evitare gli ostacoli sul sentiero” con questi pensieri in testa inciampo e cado lungo in terra sporcandomi di terra e di uno schizzetto di sangue.
Poco dopo pedra longa inizia la salita vera. Spengo la frontale sperando, invano, di non doverla riaccendere quando scenderà la sera: mi aspetta invece una lunghissima giornata! K e Giuseppe, avanti a me hanno raggiunto altri due atleti e uno ci ha raggiunti da dietro. Mi trovo a disagio dietro al gruppetto. Potrei superarli ma il cuore traballa e mi consiglia di non farlo. Allora con la scusa di mettere la lampada nello zainetto, mi lascio sfilare riguadagnando spazio libero davanti e vento in faccia. Intanto si continua a salire e la visuale aumenta al quadrato col prodotto della luce per l'altezza. Di fronte a noi si staglia, sempre più maestosa, una parete verticale di 4 -500 metri. Quasi per caso, mi rendo conto che sto correndo su una cengia e anche sotto di me ci sono centinaia di metri di vuoto: che meraviglia!
Sulla cengia Giradili - foto di Fabio Moro  
All'undicesimo chilometro, primo ristoro, prima festa; c'è anche la birra fresca! Mi trattengo; sono le 7:30 del mattino, è ancora presto, al bar dell'ovile è ora di colazione.
Ormai siamo sull'altopiano del supramonte. Il tracciato prosegue su una carrozzabile prima in dolce salita e poi in discesa. Una freccia ci fa tornare su sentiero che ora scende veloce fino ad innestarsi su un altro sentiero. Questo lo riconosco: è quello che risale da cala goloritzé. Mi volto per cercare lo spettacolo della guglia e mi sembra di intravederla fra gli alberi ma il tracciato risale fra rocce e lecci maestosi e primitivi ricoveri per animali. Mi rendo conto di avere una piccola vescica sotto la pianta del piede destro. Cazzo è troppo presto per iniziare a soffrire! Mancano ancora più di 70 chilometri. Maledico le calze nuove e stringo la scarpa per ridurre il movimento del piede e il dolore.
Al ventunesimo chilometro ecco il secondo bar. Ora sono quasi le 9 e una birretta ci sta.
Seguendo un'indicazione turistica, con una brevissima deviazione dal percorso di gara mi affaccio su una voragine dantesca: su sterru. Impressionante. Sembra il culo del mondo!
Saltellando su pietroni per recuperare la strada, ecco la seconda caduta della mia via crucis. Mi rialzo con finta disinvoltura e inseguo il gruppetto che mi aveva superato approfittando della mia deviazione.
Altra freccia. Lasciamo la comoda carrabile che porterebbe direttamente a cala Sisine per un sentiero pietroso molto tecnico. Iniziano le vere martellate. Presto capisco il motivo della deviazione. Sento le urla di entusiasmo di Giuseppe poco avanti a me. Stiamo arrivando sul bordo del supramonte, su un terrazzo che si affaccia a picco verso il mare. Cerco il posto migliore per fare una pisciata panoramica, 200 metri di getto: la pisciata del niagara! Queste sono soddisfazioni! Mezz'ora dopo Gianni appoggerà il suo zainetto proprio lì e, sono sicuro, farà una pisciata (o almeno mezza) anche lui.
Lo zainetto di Gianni
Scendendo per una pietraia, si ritorna sulla carrozzabile lasciata in precedenza che segue la larga e lunghissima codula di sisine, correndo sinuosamente fra pareti verticali piene di buchi e di alberi in posizioni impossibili, fino a raggiungere il mare. Si corre bene, anche se la vescica del piede destro ha ora una sorellina sotto il sinistro e la spallina sinistra dello zaino ad ogni passo picchia dolorosamente contro un'abrazione alla base del collo. Poco prima delle 11 arrivo al bar di Cala Sisine, al km 37. “Come va?” “È tutto molto bello ma sono stanco” “Non puoi essere stanco, il duro deve ancora cominciare”. Bevo una birra al limone, mangio una peretta freschissima e dolce di un albero della cala, un'altra la prendo in mano per il viaggio e riparto. Al di là della bellissima spiaggia riprende il sentiero che risale un fitto bosco. Raggiungo Giuseppe che è praticamente fermo, bloccato da una crisi di fame. Cerco di incoraggiarlo raccontandogli di riprese miracolose come quella di Enrico alla Trans d'Havet ma la salita è ancora lunga, ogni tanto sembra finire ma poi riprende; sembra interminabile a me che sto relativamente bene e capisco che lui non riuscirà ad arrivare. Finalmente si scende lungo un bellissimo sentiero a tratti liscio e veloce. Dopo un tornante, cala luna si svela magnifica come una striscia bianca fra la laguna verde e il mare celeste. È mezzogiorno passato, il caldo comincia a diventare opprimente e sogno di buttarmi in mare. Dopo un ultimo tratto di discesa più pietrosa, alle 12:40 arrivo al bar della cala.
Ho corso 48 km con almeno 2km di dislivello dopo essermi svegliato alle 4 e mezza. Le motivazioni che mi hanno portato fin qui, correndo per quasi 7 ore e che mi porteranno a fare altrettanto per arrivare al traguardo devono essere davvero forti e profonde … “potrei avere una birra?”

lunedì 3 ottobre 2016

UTSS - la metamorfosi

“Da domani farò vita da koala. Non fanno un cazzo e vivono cent'anni” promette Dimitri sull'interminabile salita che dal mare porta ai mille metri dell'altopiano. Siamo intorno al 55esimo km. Sono d'accordo con lui. I koala non fanno altro che masticare e sonnecchiare, se non nel periodo della riproduzione, e io per la gara di Macomer devo solo allenare le mandibole e sonnecchiare, se non nel periodo della riproduzione.
Sembrerebbe che perfino “massiccione” Zanda, su quella salita, abbia rivendicato il diritto ad un posto sul divano di fronte alla tv ma, in quanto mito, non credo che possa andare in pensione.
Faccio la schiuma. Il caldo mi sta facendo sudare fuori tutta la birra bevuta a cala luna. Non vedo l'ora di raggiungere il prossimo ristoro, sedermi e berne un'altra bella fresca per poi fare nuova schiuma. La prima vescica plantare destra è arrivata 40 km fa e ormai fa parte dell'arredamento di questo corpo disagiato insieme alla sorellina del piede sinistro, alla piaga sul collo scavata dalla spallina dello zaino, ai numerosissimi dolori muscolari e ad una sensazione di nausea. La metamorfosi è sofferenza, si sa. Ma come sono arrivato fin lì?

Si naviga a vista. Fino a 3 giorni prima della gara non sapevo con chi andare, dove dormire, dove mangiare e cosa indossare per la gara; ero in mutande e neanche pulitissime e senza credito nel cellulare. Appena prima di partire ho fatto una sosta al negozio di abbigliamento sportivo per comprare un paio pantaloncini senza buchi, un paio di solette da 1 mm che assorbono benissimo tutta l'energia e le pietre da 25 millimetri sembrano di soli 24 e un paio di super calze che, quando le indossi, le dita dei piedi non si infilano in nessun buco. Solo le scarpe sono un po' a brandelli, per il resto sembro decentissimo. Essere disorganizzati può essere un vantaggio quando si è fra amici organizzati e generosi. Con un messaggio FB ho trovato un passaggio per andare con l'autista migliore, Paolo, che se il bar è dalla parte sbagliata della superstrada, per lui non è un problema. Non trovare posto alla cena ufficiale, poi, mi ha obbligato a cercare un “ripiego” ed accettare l'invito dell'allegra compagnia di Capoterra. Quando si tratta di mangiare sono una vera garanzia: muggine arrosto pescato la mattina stessa, malloreddus fatti in casa, panada di capra e piselli, tiramisù al cocco, biscotti e torta paradiso, vino di proprietà in abbondanza e, per finire, il mitico limoncello di Cinzia, l'ideale prima della gara, ma anche dopo. Infine ho trovato un letto, per di più matrimoniale, con il grande Enrico di Cosimo! Devo ricordarmi di chiedere il divorzio: si agita troppo nel letto.

5 e 50; mancano 10 minuti alla partenza. Enrico si guarda intorno. “Non vedo Marco Pajusco … tu l'hai visto?” Controlla gli avversari, punta al podio e fa bene. Anch'io controllo i miei avversari: la schiena, il ginocchio, il piede, lo stomaco … gli avversari più temibili sono tutti dentro di me. Poi i chilometri, il caldo e il calcare; quella roccia chiara che si lascia malleare dall'acqua assumendo forme strabilianti, a volte morbide, altre pungenti, dirupi, grotte, guglie ... è dura per gli uomini. Sarò io ad essere malleato. Prima di partire devo salutare il mio corpo, che così come lo conosco non lo ritroverò più. La testa è già andata, scavata dal calcare; forse mi cresceranno le ali o forse diventerò un koala.