mercoledì 27 luglio 2016

Trans d'Havet - A tutta birra!

Leggi la prima parte Il sentiero sale quasi subito ripido e fatico a tenere il passo di quelli accanto a me. Recupero un ramo da usare come bastone ma più che "nordic walker" mi sento vecchietto. Oltre ai normali dolori, percepisco infatti una sensazione di affanno tipo "vecchietto che sale le scale". Quando finisce la salita ripida il sentiero scende veloce per un breve tratto, mi sento rigido tipo "vecchietto che scende le scale", poi finalmente spiana, ringiovanisco, getto via il bastone e ricomincio a correre. Che piacere correre sui dolci saliscendi verso passo Campogrosso, con quel gesto fluido ed elastico che conosco così bene e che oggi ho potuto fare così poco. Recupero qualche posizione e raggiungo di nuovo Enrico. Questa volta è in piena crisi di fame. Correndo con troppo slancio ha esaurito le riserve di carboidrati. Lo accompagno al passo per un tratto di strada poi corro avanti per aspettarlo al ristoro. Bevo la solita birra e chiedo informazioni sul percorso. Sapevo, anche dai racconti di Antonello, che qui inizia la parte più selvaggia e dura e che per un bel pezzo sarebbe stato anche difficile ritirarsi. "Il sentiero passa da lì" mi dicono Indicando un canalone quasi verticale sulla bella parete dolomitica del monte Carega. Mi siedo ad aspettare Enrico e quando arriva gli spiego la situazione e chiedo che intenzioni abbia. Non ha nessuna esitazione e toglie anche a me ogni traccia di dubbio. E' ancora in piena crisi ma vuole andare avanti.  Nessuno dei nostri amici sardi è mai andato oltre, noi lo faremo.
Non ho fretta e faccio volentieri un pezzo di salita con lui. Anch'io sono molto stanco e credo che faccia bene anche a me andare piano. Ci mescoliamo agli escursionisti che salgono per lo stesso sentiero andando ad un passo appena più veloce del loro. Ogni tanto ci supera qualche concorrente ma non importa, voglio solo arrivare. Offro ad Enrico un pezzetto del torrone vinto a Tonara, che ho confezionato appositamente per questa gara, con la carta d'alluminio ormai inglobata come le mandorle nel fluido mieloso. Forse grazie al miele o all'alluminio, piano piano si riprende. Il sentiero entra nel canalone e diventa ripidissimo. Nonostante siano appena passate le 9, a 1800 metri di quota fa un caldo quasi afoso. A metà salita mi rendo conto che non sto più aspettando Enrico: questo è il mio passo. Dopo diversi sorpassi subiti, ora siamo noi che  guadagnamo qualche posizione e gli escursionisti ora sembrano fermi. Enrico resta leggermente indietro ma alla forcella mi raggiunge. La salita non è finita, dopo un bel traverso pianeggiante, si scorge, 200 metri più su, il passo dov'è situato il punto più alto di tutto il percorso. Il cielo sta brontolando già da un po'. "Fra poco piove" dico. "E' presto, deve piovere nel pomeriggio" "non senti i tuoni?" Poco dopo iniziano a cadere grosse gocce che non fanno presagire niente di buono. Enrico ora è avanti, fatico a seguirlo. Mi raggiunge Sabrina, con cui avevo fatto un po' di strada di notte. E' preoccupata. Inizia a diluviare. Ci fermiamo ad infilare la giacca e cerchiamo di affrettare il passo per arrivare presto al ristoro in cima. Appena arrivati al passo ci accorgiamo che il ristoro non è altro che un telo spazzato da un vento terribile, sotto al quale, insieme ad un'altra decina di persone ammassate per cercare riparo dalla pioggia, c'è anche Enrico che mi ha aspettato per decidere cosa fare. Il rifugio Fraccaroli è più su, il percorso invece scende verso il rifugio Scalorbi non troppo distante. "Scendiamo" dico, "qui si muore di freddo". Intanto comincia a grandinare, il sentiero è un torrente ma appena iniziata la discesa, il vento si placa e capisco che stiamo facendo la cosa giusta. I muscoli però sono induriti dal freddo e le articolazioni, dalle ginocchia ai talloni fanno male e mi impediscono di correre. Dico a Enrico di non aspettarmi e continuo al passo.  Continua a tuonare sempre più forte. Incrocio una famigliola con bambina e cane che stavano salendo al rifugio Fraccaroli ma si erano fermati bloccati dalla paura e dall'indecisione. "Vi conviene scendere" dico loro. Mi supera Sabrina "abbiamo fatto bene a scendere" dice. Poi altri; vanno tutti a velocità doppia rispetto a me ma non riesco proprio ad accelerare. L'acqua ormai è penetrata sotto la giacca e i piedi ci sono immersi. Il temporale, per fortuna, sta calando d'intensità ma mi rendo conto di avere freddo. Guardo le mani, gonfie e rosse, e le scuoto per riattivare la circolazione. Vedo il rifugio poco lontano ma sono così lento che impiego un'eternità per raggiungerlo.

Al ristoro del rifugio Scalorbi
Fisicamente distrutto ma sorridente
Il ristoro è un tendone montato a ridosso del  rifugio. Mi faccio servire brodo caldo e lo bevo dalla scodella. Mi aiuta ma non basta e comincio a tremare. Enrico intanto si è cambiato. Vado anche io a cambiarmi in una stanzetta del rifugio a nostra disposizione. La maglietta a maniche lunghe è in un sacchetto di plastica ancora asciutta. I famosi pantaloni lunghi sono invece fradici e inutili. Prima di rimettere la giacca cerco di asciugarne l'interno per evitare di infradiciare subito la maglia asciutta. Intanto continuo ad essere scosso da brividi. Bevo due bicchieri di the caldo e aspetto lì al chiuso seduto su una panca, ma il freddo mi esce da dentro e l'ambiente non è abbastanza caldo da smaltirlo. Fuori ha quasi smesso di piovere e provo ad uscire sognando il caldo afoso di poco prima ma l'aria è ancora quella fresca del dopo-temporale. Intanto stanno arrivando i primi concorrenti della 40 km. Qualcuno di loro è in canottiera, fradicio ma, scaldandosi dall'interno con i residui dell'azione di corsa, non soffre il freddo. Io dentro sono vuoto, ho solo freddo. Se ci fosse stato un pullman o una tenda calda per ritirarsi, mi sarei ritirato ma non c'era. Non so quanto tempo ho passato lì, forse un quarto d'ora, probabilmente di più. Non vedo più Enrico, sicuramente  è partito quando ero dentro a cambiarmi e a meditare. Per la terza volta ho pensato “lo rivedrò al traguardo” e anche questa volta mi sbagliavo. Provo a ripartire anche io; camminando in salita forse riesco a scaldarmi.  Alzo il bavero della giacca sopra la bocca in modo che il fiato tiepido resti intrappolato intorno al corpo e riprendo a camminare. Mancano 26 km al traguardo e sono le 11. Se anche camminassi per tutto il tempo  arriverei entro le 18, in tempo per l'aereo. Su queste pendenze dolci non soffro tanto e penso quanto sia meglio camminare ora su questi sentieri piuttosto che di notte lungo la statale Marradi-Faenza con le macchine che mi sfrecciano accanto ... link.
Insomma, non me la godo ma ho vissuto di peggio e piano piano comincio anche a scaldarmi. Mi superano ancora diversi concorrenti, quasi tutti della 40 km. Dopo la salita e una ripida discesa, le pendenze si ammorbidiscono, la temperatura interna sale e le gambe, incredibilmente fanno sempre meno male. Ora che sto tornando vivo, mi rendo conto di avere un sasso nella scarpa e la vescica gonfia ma non mi fermo subito, voglio aspettare di avere meno freddo. Quando finalmente tolgo il sasso dalla scarpa mi sento rinascere e ricomincio a correre. Prima della pisciata faccio ancora almeno un chilometro per trovare il punto più panoramico! Svuoto la vescica e rinasco ancora di più. Appena ripartito mi superano altri 2 della corta, ma ora sono un altro e li seguo a distanza senza difficoltà. I due raggiungono altri che mi avevano superato prima e quando la strada inizia a risalire camminano tutti. Io continuo a correre e li supero di slancio. Sto proprio bene e solo quando le pendenze diventano ripide cammino, non perché non riuscirei a correre ma per tenere un po' di energie per il futuro. Non so quanto durerà questa resurrezione miracolosa e mancano ancora 15-20 chilometri al traguardo.
Al ristoro di Malga Campo Davanti trovo un'ottima anguria e la solita birra. Sono euforico e riparto quasi subito correndo sui saliscendi del sentiero di cresta. So che fra non molto arriverò alla fine di questo bel crinale e il percorso scenderà ripido verso il traguardo. Non so come reagiranno le gambe in discesa ma intanto mi diverto continuando a correre e superare. La maggior parte di quelli della lunga sono quasi fermi. Mi ricordano le mie condizioni di un'ora prima e il confronto mi esalta ancora di più. Dopo il controllo chip della Sella del Campetto il sentiero diventa più tecnico ma mi diverto ancora fra sassi e roccette e … ecco Enrico! Gli chiedo come stia. E' di nuovo un po' in crisi, ma ormai è fatta. Questa volta non lo aspetto, me la voglio godere tutta fino in fondo, tutta per me. Nel tratto di discesa più ripido mi superano 3 o 4 della corta ma scendo comunque bene. Sotto al piede destro ho la pelle bagnata che ha fatto un grumo tipo "lenzuolo di letto sfatto". Duole ma non me ne curo più di tanto. Ho anche caldo e tiro su le maniche senza fermarmi.
Un altro ristoro: quanto manca? 8 chilometri e mezzo. Ma come, stavo facendo lo sprint finale! Mi coglie di sorpresa ma non mi preoccupa, continuo a stare bene, una birra (qualcuno le sta contando?) e via di nuovo a tutta. I quadricipiti e le ginocchia li sento indolenziti ma mi lasciano  correre anche se mi sento sempre più rigido. Continuo a forzare. Non sono certo fra i primi ma comunque è una gara e voglio dare tutto, non avrebbe senso arrivare riposato. Lungo una breve risalita supero Sabrina, è in crisi e mi chiede se ci siano altre donne vicine. La tranquillizzo: la terza l'avevo superata qualche chilometro più su ed era in difficoltà nella discesa ripida.
Ecco una fontana meravigliosa abbondante e freschissima. Cacciare la testa sotto il flusso dell'acqua è un altro dei tanti "migliori piaceri della vita" che ho assaporato oggi. Si entra in paese. tanti volontari controllano le strade e mi incoraggiano "forza che mancano solo 600 metri". Gli ultimi sono ragazzini, che bellezza! Lungo il rettilineo finale mi sembra giusto fare un allungo veloce ma composto e incitare il pubblico che risponde calorosamente.  Ne avrei ancora, ho dolori dappertutto ma potrei tranquillamente andare avanti. 14h14' di gara, 48esimo su 300 partenti, quasi tutti giovani e magri, e ottavo di categoria (niente prosecco per questa volta). Dopo poco più di un quarto d'ora e altre 3 birre, arriva Enrico, stanco ma felice anche lui di avere finito.Gara bellissima, organizzata perfettamente e con un percorso davvero spettacolare ... e poi mi sento un po' spettacolare anch'io. Non m'aspettavo davvero un arrivo così dopo 83 km e 5500 metri di dislivello, all'esordio nell'ultratrail e allenato in tre settimane da un allenatore (che sarei io) di scarsissima reputazione e ...  vabbè, ora basta con gli auto-complimenti, ora aspetto i vostri.
 Adesso devo tornare sulla terra. Devo reimpostare i siti meteo che sono ancora tutti puntati su Valdagno. Chiudere la finestra con l'altimetri della TdH sul desktop. Smettere di bere un bicchiere di birra all'ora. Godermi il riposo e la normalità di questa vita che ora si è arricchita di prospettive più ampie. Viva il trail, viva la Trans d'Havet!

martedì 26 luglio 2016

Trans d'Havet - La notte


In piazza a Piovene c'è festa con musica dal vivo. Forse è per noi o almeno mi piace pensarlo. Nel recinto per la partenza siamo circa trecento. Mi guardo intorno: sono quasi tutti giovani, magri, super-equipaggiati … dove sono i vecchi tapascioni sovrappeso che vedo di solito alla partenza delle gare e che mi danno tanta sicurezza? Non li vedo, anzi, ho l'impressione che siano gli altri a guardarmi pensando: "se ce la fa quello, vuoi che non ce la faccia io?" Inizia il conto alla rovescia, saluto Enrico, penso che lo rivedrò solo al traguardo; tutti accendono le luci frontali e a mezzanotte in punto si parte. Dopo un paio di km si esce dal paese e inizia la salita su una comoda carrareccia; ognuno può andare al suo ritmo. Quasi tutti usano i bastoncini e camminano molto veloci. Io perdo un po' di posizioni camminando ma le recupero alternando con la corsa nei punti meno ripidi. In realtà non bado alla posizione ma solo a tenere un ritmo decente. Siamo nel bosco e non si vede molto oltre la strada. In cielo la luna ci conferma che sarà una notte serena; l'aria calda e umida mi si condensa addosso infradiciando quasi subito pantaloncini e maglietta. La salita è abbastanza facile ma lunga e impiego quasi un'ora e mezza per scollinare. I primi mille metri di salita sono andati, il minimo sindacale è dietro di me. La discesa successiva è molto più divertente. Dopo una prima parte tecnica ma senza particolari emozioni, si arriva sulla cresta rocciosa. La frontale illumina solo il sentiero: appena più in là, il buio del vuoto. Ogni tanto si scorgono luci lontane in basso che fanno intuire il precipizio. Moltissimi volontari sono sul percorso per invitare alla prudenza; è davvero affascinante anche se un po' pauroso. Siamo in fila indiana ma intorno alla cinquantesima posizione si viaggia relativamente rapidi. Non ho fretta e non provo a superare. La discesa finisce su una strada asfaltata dov'è situato il primo ristoro e dopo una breve sosta, riparto, di nuovo in salita, verso il monte Novegno. Ora la densità di atleti è molto più bassa e mi ritrovo in compagnia di Sabrina, seconda fra le donne. Finora, a parte le chiacchiere di amici che viaggiano insieme e i continui incitamenti dei tanti volontari sul percorso, non ho sentito quasi nessuno scambio verbale fra concorrenti. Sarà che sono le due passate e a quest'ora si dorme. Quando il panorama si apre sulle luci della valle ne approfitto per esprimere la mia meraviglia e lo scambio di due parole è sufficiente per creare quel minimo di intimità che aiuta a sentirsi un po' meno soli, un po' meno pazzi in questa follia. Si continua a salire dolcemente, fra pascoli neri con mucche nere dagli occhi a lampadina, fino al secondo ristoro. Fra le solite bevande noto la birra. Questa la berrò dopo, dico. Si continua ancora in leggera salita fino all'imponente forte Rione, dove comincia un primo assaggio di strada di guerra con gallerie scavate fra rocce spettacolari; sono a 2000D+, vicino al mio record di dislivello giornaliero, stanco ma ancora ben vivo. Il percorso lascia presto la strada militare per un sentiero tecnico fra sassi e radici; scendo veloce superando 3 o 4 concorrenti ma gli appoggi irregolari mi costano un indolenzimento sotto il piede destro e alle ginocchia.
Nell'altimetria, fra enormi denti da squalo, spunta un dentino che sembra da latte o al massimo da pappetta: il dente di monte Alba. Ne avevo sentito parlare e Marco me lo aveva confermato: nonostante l'apparenza, è uno dei più terribili. Sono ancora lanciato e supero velocemente le prime brevi rampe e qualche concorrente. Il prossimo lo riconosco dalle calze gialle firmate artzia: è Enrico! Sono contento di averlo raggiunto, non me lo aspettavo. Ho paura che sia in crisi. Mi rassicura a parole e ancora meglio staccandomi appena finiscono le rampe scoscese e inizia la discesa. Lo raggiungo poco oltre, al ristoro di passo Xomo; bevo un bicchiere di birra, poi, vedendo arrivare un gruppone, decido di ripartire subito: non mi piace correre intruppato, preferisco avere spazio davanti per godermi la visuale a 360o.
Intanto comincia a schiarire, anche i peggiori tiratardi stanno uscendo dalle discoteche per andare a dormire; sono le 5 quando arrivo all'imbocco della strada delle 52 gallerie, una strada costruita durante la prima guerra mondiale che risale l'imponente parete rocciosa del monte Pasubio. Gallerie brevi si alternano ad altre lunghe che salgono "a chiocciola" per superare dislivelli. Si affacciano su balconi spettacolari, strapiombi con vista su guglie dolomitiche. Fuori dalle gallerie spengo la frontale per assaporare meglio la luce del primo mattino. Non vado veloce. Sono stanco e mi voglio godere lo spettacolo. Le gallerie hanno molte aperture sul vuoto per la luce. Una volta ne sto per imboccare una ma trovo subito un volontario che mi ferma prima del salto. Il sentiero, fra cenge naturali e gallerie, è tutto sul baratro ma sufficientemente largo da non dare vertigine; ogni tanto la cerco, affacciandomi sul vuoto. Le gallerie sono numerate. 52 sono davvero tante e, nonostante la bellezza del posto, dopo un po' non vedo l'ora che finiscano; me ne sarebbero bastate una trentina ma si continua a contare. Un ragazzo che corre poco avanti a me mi fa notare un bellissimo capriolo su un balconcino erboso vicinissimo al sentiero. Poi le gallerie continuano ma la strada comincia a spianare; trenta non bastavano, il meglio è ora.
Non sono io, ma rende l'idea.
La cinquantaduesima segna anche l'inizio della discesa al rifugio Papa. Poco oltre mi raggiunge Enrico, con la go-pro in azione e un gran sorriso: si sta divertendo anche lui. La prima parte di discesa su strada carrozzabile con pendenza dolce inviterebbe a correre veloce ma le gambe dolgono e lascio andare Enrico perdendolo quasi subito di vista. Poi iniziano le scorciatorie su sentieri ripidi e soffro ancora di più. Pian delle Fugazze è vicino e il primo obiettivo è ormai praticamente raggiunto ma vorrei arrivarci con le gambe non completamente distrutte per avere il coraggio di ripartire. Quando sto per arrivare al ristoro vedo Enrico che sta già cominciando la salita successiva. Ci vediamo al traguardo, penso. Sono stanco e ho bisogno di sedermi, nutrirmi con calma e riflettere. Sono le 7 e molti di voi stanno facendo colazione. Dubito però che fosse come la mia: pastina in brodo, formaggio, speck e birra e, va beh, un caffè.
Mi risiedo. Correre tutta la notte, superare 3000 m di dislivello e visitare le gallerie del Pasubio sono state esperienze nuove e fantastiche che hanno comunque valso il viaggio. Teo, 3 anni fa si era ritirato proprio qui. L'obiettivo minimo quindi è raggiunto e potrei ritirarmi con l'anima in pace. Stanco come sono, a pensare di essere a metà strada mi scoraggerei; meglio non pensarci allora. Faccio un po' di stretching e riparto verso la prossima birra.

domenica 24 luglio 2016

Trans d'Havet - intro

Le ragioni sono due. Come fanno due ragioni a fare una follia? Ve lo spiego.
La prima. Le ultime sfide mi sembravano davvero velleitarie ma le ho superate con successo. Allora, per non essere costretto a cambiare il nome di questo blog in qualcosa tipo "il realismo di Lorenzo Pisani", mi serviva una sfida che non sarei riuscito a superare. La seconda. Un mese e mezzo fa per accompagnare Stefano e K in un allenamento per la LUT, ho corso 50 km in montagna con quasi 2000 m D+. Dovevo dare un senso comprensibile a tutti a questo allenamento, altrimenti mi avrebbero preso per folle. Quindi, quando 3 settimane fa Enrico di Cosimo mi ha fatto sapere che avrebbe partecipato alla TdH con Enrico Zaccheddu e Teo, ho cominciato a pensarci seriamente. Arrivare in 3 settimane a correre 83 km con 5500 m di dislivello, ecco una vera sfida impossibile.
I racconti di chi aveva partecipato alle passate edizioni sono pieni di fulmini. In queste 3 settimane, allora, oltre ad allenarmi, seguo con interesse l'evoluzione del meteo sul web. Non ho idea di cosa succeda sopra la mia testa, ho gli occhi puntati sul cielo sopra Valdagno. In particolare mi interessano le nuvolette con i fulmini rossi. Giorno dopo giorno si spostano. Una settimana prima della gara, i "temporali con grandine" sono proprio la notte fra venerdì e sabato, poi osservo le nubi del web che passano lasciando spazio alla luna. Tutto bene, parrebbe, almeno fino al pomeriggio dopo.
L'organizzazione del viaggio di Enrico&Enrico è perfetta. Si parte venerdì in tarda mattinata e si rientra sabato sera con voli diretti Cagliari Verona. Paghiamo 80 euro, pasti compresi, per una notte nel miglior albergo del mondo: hotel Trans d'Havet con infinite viste panoramiche sulle piccole dolomiti. Devo solo rimodulare i cancelli orari per arrivare entro il tempo limite per non perdere l'aereo: 18 ore invece delle 24 previste dall'organizzazione. Enrico mi aveva tranquillizzato: "io ed Enrico dovremmo finirla in 13-14 ore, tu dovresti farcela in 15" "Ah sì?" Enrico non lo sapeva ma aveva lanciato una sfida. Intanto, prima Teo poi Enrico Zaccheddu hanno rinunciato per problemi fisici. Restiamo io e lui.
Venerdì, poco prima delle 5 del mattino mi sveglia un crampo al polpaccio. Non vedono l'ora di uscire a mordere muscoli questi maledetti. "Non è ancora arrivato il vostro momento, non potete aspettare 24 ore?" Per il resto, parto con dolorini vari - residui di una preparazione molto affrettata - e molti dubbi. Non penso di riuscire ad arrivare, ma non importa. Partire a mezzanotte per un mitico ultratrail, correre tutta la notte, fare 3000 m di dislivello e visitare le gallerie del Pasubio saranno esperienze nuove che varranno comunque il viaggio. Obiettivo minimo quindi fissato al 42o chilometro, a Pian delle Fugazze, poi si vedrà.
Verso le 11 arrivo all'aeroporto. Enrico mi sta già aspettando. Faccio la fila al check-in con in mano la carta d'imbarco piegata nel passaporto, come al solito. Quando è il mio turno, apro la carta d'imbarco e mi accorgo che è l'altimetria della Trans d'Havet. La hostess dice che non è valida per imbarcarsi e mi fermo a lato per un paio di minuti a cercarla nelle varie tasche della borsa. Enrico mi guarda con aria stupefatta, non sapeva ancora in che compagnia era capitato. Poco dopo mi rendo conto di aver lasciato il cellulare in auto all'aeroporto ma aspetto a dirglielo per non sconvolgerlo.
Dopo un breve viaggio su auto a noleggio, arriviamo a Valdagno. Enrico ha lavorato di notte e viaggia con un materassino gonfiabile pronto a stendersi quasi ovunque: un'oretta al parco, un'oretta sulle gradinate del palalido ed è a posto. Io invece mi metto a riposare su un lettino dei massaggi negli spogliatoi, comodo, tranquillo e con l'aria condizionata. Più che dormire, navigo fra coscienza ed incoscienza; ad un certo punto mi appare un'immagine del mare trasparente ... ho staccato del tutto e me la godo in quelle acque limpidissime. Enrico viene a svegliarmi. "Davvero mi devo alzare? Tu vai, ti aspetto qui al mare. Ci vediamo domani".
Il materiale obbligatorio è tutto pronto nello zainetto. Fischietto, telo termico, giacca, maglia a maniche lunghe di ricambio. Il cellulare fortunatamente è facoltativo. L'unica cosa che non porterò sono i pantaloni sotto al ginocchio, del resto con questo caldo sicuramente non saranno fiscali e quasi nessuno li porterà ... durante il briefing, il direttore di gara cita proprio - credo appositamente - i pantaloni sotto al ginocchio come esempio di materiale da portare con sé - pena squalifica. Sono uno dei primi della lunga fila di atleti al deposito borse per recuperare un paio di pantaloni lunghi da mettere nello zainetto. Dopo il briefing, saliamo sui pullman diretti a Piovane per la partenza. Mi siedo accanto a Marco Pajusco, che ha vinto la scorsa edizione, e approfitto della sua disponibilità per farmi descrivere il percorso e della sua amicizia per farmi incoraggiare. "Se parti con l'idea di ritirarti, ti ritirerai. La crisi arriverà", mi assicura, "dovrai solo trovare la forza di superarla." E così sarà.

martedì 19 luglio 2016

Tonara, corsa dei quattro rioni - il minimo sindacale

In pieno furore atletico, alimentato dal terrore della Trans d'Havet che incombe e dall'ansia di poter dire “ho fatto tutto il possibile … che era possibile fare in due settimane", negli ultimi sette giorni il tom tom ha registrato 156 km con 7000 metri di dislivello; mille al giorno: il “minimo sindacale”.
Quando le tabelle non funzionano o non esistono, non mi resta, infatti, che adottare il terribile “minimo sindacale”. Il principio è semplice: se devo fare una gara di "tot" km o con "tot" dislivello e finirla in condizioni decenti, devo poter fare una frazione di un quarto o un quinto di "tot" in totale scioltezza, in qualsiasi condizione. Per esempio, non è pensabile finire bene una maratona se non si riescono a fare 10 km al ritmo gara anche quando il giorno prima si è fatto un allenamento pesante. Allo stesso modo, per fare una gara con 5500 metri di dislivello, si deve riuscire a farne almeno 1000 sventolando le mani.  Per realizzare questa condizione, allora, fisso un “minimo sindacale” e, ogni giorno – anche dopo un lungo o una gara impegnativa – mi impegno a portarlo a termine; deve diventare una sorta di rumore di sottofondo, una routine quotidiana da fare in scioltezza, come il sudoku di repubblica o la cagata del mattino.
Venerdì, a conclusione di questa settimana di fuoco, ho corso per 51 km con 2000 di dislivello, per un totale di 6 ore di corsa, finite al fresco delle 14.30 di un 15 luglio nella sardegna del sud.
Sabato, arrivo a Tonara nel primissimo pomeriggio; muscoli, schiena, ginocchia, pianta e unghie dei piedi sono a pezzi, indolenziti al punto che alzare la gamba destra per infilare le mutande è una tortura. Sono le condizioni ideali per praticare con efficacia il “minimo sindacale”. Informo Checco delle mie intenzioni e mi accompagna su per un bellissimo percorso trail, fra il fresco dei boschi e delle innumerevoli fonti, fino in cima al monte Mugianeddu da dove si riesce a vedere più di metà Sardegna e la sensazione di dominio che si gode da lassù vale più di qualsiasi mal di gambe. Rientriamo dopo le 20; il tom tom registra 17-18 km e oltre 700m di dislivello che uniti ai 100 fatti per raggiungere la pizzeria in cima al paese, mi fanno arrivare quasi al minimo sindacale: neanche oggi sarò licenziato.
La sera, con tanti amici, si fa a gara a chi ha fatto lo scarico pre-gara più dissennato. Pensavo di non avere rivali ma Francesco, con i 10 km della gara di nuoto del mattino e i 130 in bici per raggiungere Tonara, mi batte anche questa volta. Pazienza, non mi resta che cercare la rivincita sulla strada. Il mattino dopo infatti si corre la gara podistica per la quale siamo venuti: poco meno di 10 km tutti su asfalto che, seguendo il giro del postino, percorre tutti i rioni del paese, infilandosi nei vicoli più stretti e tortuosi in un continuo e divertente saliscendi. Il dislivello è di soli 400 metri, per cui sono costretto a rimodulare il minimo sindacale: non farsi male, vincere qualche torrone e battere Francesco Puddu.
Sulla linea di partenza sono in quarta o quinta fila. Parto piano come promesso alle mie gambe. I primi non li vedo neanche, Francesco invece è lì, qualche decina di metri avanti a me. Si sale, si scende, supero atleti ma lui è sempre lì, alla stessa distanza a provocarmi con la schiena. Lo perdo di vista solo quando il percorso si infila nei vicoli ma lo ritrovo appena si ritorna sulla strada larga lungo i 3 km di salita; vorrei andare più piano, ma come faccio? Supera un concorrente e poco dopo lo supero anche io. E poi un altro. Al primo passaggio sulla linea del traguardo lo speaker fa il mio nome. Ora, anche se non si è mai voltato, sa sicuramente anche lui che sono poco distante ma non succede niente, la distanza resta immutata. 
Sugli ultimi divertenti strappi nei vicoli del centro, superiamo un concorrente che, dall'aspetto potrebbe essere della mia categoria. Anche lui ha lo stesso sospetto e mi si attacca dietro. Mi tocca forzare un po' per essere sicuro di vincere i torroni in premio e su una bella discesa aumento l'andatura; lo stimolo del sacchettaro è decisivo anche per raggiungere Francesco. Lo invito a seguirmi ma gli manca la voglia e arrivo al traguardo tredicesimo e primo di categoria. Sono proprio sodisfatto e stupito. Resta infatti un mistero: come fa uno che non riesce ad infilarsi le mutande senza smorfie di dolore ad arrivare primo di categoria? La risposta forse è scritta sulla schiena di Francesco anche se non sono riuscito a leggerla. 
Nonostante abbia fatto solo il minimo sindacale, sono proprio stanco. Nonostante la stanchezza, è stato per me un bellissimo fine settimana. Grazie a Checco e famiglia per l'ospitalità e Antonello e Alessandra per avermi riportato a casa, tutti con una gentilezza talmente naturale da indurmi ad accettare senza la minima esitazione.       
Foto di Arnaldo Aru
 

martedì 12 luglio 2016

Trans D'Havet

Alla fine l'ho fatto. Mi sono iscritto alla Trans D'Havet, gara di ultratrail di 80 km con 5500m di dislivello che si corre sulle piccole dolomiti, nel vicentino.
Ho tante paure. Mi fanno paura i 5500 metri di dislivello; in vita mia non ho mai superato i 2000 e qui in Sardegna non esistono neanche, a meno di non salire per tre volte in cima al gennargentu partendo dal mare. Mi fa paura la partenza a mezzanotte; immagino che correre tutta la notte e poi per buona parte del giorno dopo possa essere un'esperienza più devastante di una gita scolastica. Mi fanno paura i passaggi esposti che troverò in diversi punti del percorso, compresa la notte e il finale, quando la lucidità sarà un ricordo d'infanzia. Mi fanno paura i temporali notturni con fulmini e freddo che hanno funestato le ultime due edizioni e che immagino così bene scoppiare sulla mia testa. Mi fanno paura ovviamente anche gli 80 km, con 3 parti di mal di gambe, 2 parti di vesciche, uno spruzzo di dolori articolari, shakerare e servire con ghiaccio.
Carbonizzato da un fulmine o congelato dalla pioggia, precipitato in un dirupo o morto di stanchezza? Non ho che l'imbarazzo della scelta.
E allora perché mi sono iscritto? Sono un eroe? Beh, non proprio. Ecco il vile messaggio che mi ha fatto decidere:

Il giorno 08/lug/16, alle ore 14:20, pisani ha scritto:
Buongiorno,

mi chiamo Lorenzo Pisani e vivo in Sardegna.
Vorrei iscrivermi all'Ultra trail, ma, a causa di un piccolo  infortunio, non sono sicurissimo di riuscire a correre una gara cosi' impegnativa.
Se mi iscrivessi ora alla 80 km, sarebbe poi eventualmente  possibile passare alla 42?
Nel caso, entro che data lo dovrei comunicare?

Grazie e spero di vedervi presto!

Lorenzo

Ciao Lorenzo,
il passaggio dalla 80 km alla 40 km, senza rimborso quota, è  possibile comunicandocelo entro il 18,07


Ecco, ora avete 6 giorni per convincermi a tirarmi indietro e salvarmi la vita, almeno questa bella e agiata che conosco.  

venerdì 8 luglio 2016

Una corsa notturna solitaria su sentieri di montagna.

È stata un'esperienza nuova. Se si escludono infatti gli ultimi penosi 35 km del passatore, fatti strisciando con la frontalina top di gamma del negozio cinese, che, ad ogni passo, scendeva di uno scatto, non sono mai andato a correre di notte alla luce delle stelle.
In questa stagione, in cui le temperature massime spesso toccano i 40 gradi, cercare il fresco delle ore notturne sarebbe già di per sé una motivazione sufficiente per uscire a correre dopo il tramonto. Le altre motivazioni le troverò strada facendo.
L'uscita di martedì, con Enrico e Teo, è abortita dopo 7 km per un infortunio di Teo – ormai i pelati sono in decadenza, il futuro è dei brizzolati – con rientro al passo.
Riprovo in solitaria la sera dopo. Dopo una cena quasi normale – ma senza alcolici – preparo una borraccia di acqua e bicarbonato per la digestione e una di powerade per l'energia, qualche ciccioneddas come integratore, cellulare e pile di ricambio e, verso le 21.30 parto.
Modulo l'intensità della lampada a seconda del terreno, in modo da avere il minimo di luce indispensabile per non rischiare troppo di cadere. Ho usato le batterie anche ieri alla massima intensità e non so bene quanta luce mi resti. Con me ho le batterie di ricambio ma, quando penso di cambiarle al buio, le immagino con i poli invertiti o le vecchie mescolate alle nuove o che rotolano sotto qualche pietra e io che aspetto l'alba seduto sul sentiero.
Rispetto al giorno prima, in cui le tre luci si sommavano, è tutto più buio, affascinante, quasi pauroso. Si corre bene, la luce è sufficiente a vedere il fondo del sentiero per non inciampare e le piante intorno per evitare craniate. Quando il sentiero sbuca sulla sterrata di cresta per il passo di s'enna sa craba, le luci di Cagliari, dei moli, delle strade colorano la pianura in basso di strisce giallo-arancione in bellissimo contrasto col nero del mare. La luce diffusa arriva fin quassù; spengo la frontale e tutto cambia. Il cielo si accende di stelle, i profili dei monti si stagliano con diversi toni di grigio. La strada è una striscia più chiara davanti a me. Non vedo il fondo, quindi tanto vale alzare lo sguardo verso i monti e il cielo alzando bene anche i piedi per non inciampare. Superato il passo, lascio la strada che scende, riaccendo la lampada e continuo a salire di nuovo su sentiero sconnesso verso punta pala niedda. La notte offre incontri inattesi. Ogni tanto qualche uccello notturno o pipistrello mi sfiora, forse attratto dalle nuvole di moscerini che affollano il mio fascio di luce, altre volte sento rumori che vengono dal bosco. Pensavo fossero cinghiali, invece, sul sentiero davanti a me, vedo due luci. Focalizzando meglio lo sguardo, vedo che sono gli occhi di un cucciolo di daino che riflettono la luce della mia lampada. Mi avvicino con cautela; solo quando sono a pochi metri da lui, scappa, fermandosi poco avanti sempre sul sentiero. Di nuovo le due luci che mi fissano da molto vicino. Sto attento ai rumori e mi guardo intorno; so che la madre ha le corna e non vorrei farla arrabbiare troppo. Dopo un terzo incontro, il piccolo si sposta di lato e mi lascia passare. Ritornato sulla strada, vorrei fare un'altra deviazione. Esito un po' perché il sentiero passa vicino all'ovile di is scillaras e non vorrei che il pastore – che non gode proprio di un'ottima reputazione – vedendo la mia luce di notte reagisse in modo aggressivo. Vado lo stesso sperando di passare inosservato. Quando passo accanto all'ovile sento i campanacci delle capre che si muovono inquiete per la mia presenza. Un minuto dopo, quando l'ho appena oltrepassato, sento abbaiare i cani. Aumento il passo; non sono affatto tranquillo e guardo la strada cercando pietre per un'eventuale difesa. Gli abbai si allontanano; per fortuna i cani sono legati e il pastore non li ha sciolti. Entro nel sentiero sottobosco e mi tranquillizzo. Resta l'ultima salita per tornare al passo di s'enna sa craba, poi la discesa, percorrendo a ritroso prima la strada e poi il sentiero dell'andata. Sono stanco; oltre alle gambe, anche la vista è affaticata dal continuo sforzo per cercare di valutare il rilievo dei sassi sul sentiero. Il cerchio di luce mi sembra di averlo in faccia e ogni tanto mi sorprendo a fare il gesto di spostarlo con la mano.

Poco dopo la mezzanotte sono a casa sano e salvo. Sono stanco ma è stata un'esperienza affascinante, la scoperta di un mondo diverso. Penso a quelle gare con centinaia di pazzi che partono a quest'ora per stare fuori a correre tutta la notte e buona parte del giorno dopo. Tutta la notte. E mi viene da pensare a quel cerchio di luce che piano piano si stringe ed entra nel cervello; alla sensazione di liberazione che si deve provare quando arriva l'alba, almeno finché ci si rende conto di non essere ancora a metà strada. Riuscirò mai a farne una?

martedì 5 luglio 2016

Road to San Sperate

E dopo 3 uscite nell'ultimo mese, ognuna di 5-7 ore per 37-50 km di corsa su sentieri di montagna, superando ogni volta i 1500 metri di dislivello, dovrei essere pronto per i 4 giri dell'isolato su asfalto completamente pianeggiante della gara di stasera. Mi sono concesso i due giorni prima della gara per svegliare le gambe, intorpidite da tanti chilometri a ritmi da 7' – 8' al km: giovedì, in pista, 3x300m veloci e venerdì 7km quasi pianeggianti di cui uno a ritmo veloce. La minestra di cavoli è pronta per la merenda: vediamo cosa ne esce fuori.
A 51 anni, sono un “giovanissimo” nella batteria dei quasi 100 vecchietti dai 50 anni in su. Insieme a me c'è Angelo, molto più forte di me, invece con gli altri, se sto bene, me la potrei giocare. I giudici ci guardano in faccia, guardano l'orologio – la partita dei quarti dell'europeo di calcio si avvicina – e ci scontano un giro rispetto al programma. Ne restano 4 per poco più di 5 chilometri. Parto in prima fila, voglio provare a fare gara di testa. Dopo un centinaio di metri Angelo si sta già avvantaggiando. Inutile seguirlo, scoppierei quasi subito e poi mi ha detto Tore che fra i premi per il primo di categoria non c'è la birra artigianale che invece spetta al secondo e terzo. Dopo un altro centinaio di metri, Amarildo aumenta decisamente l'andatura e va a raggiungere Angelo. Lascio andare anche lui, tanto la birra è anche per il terzo; so bene poi che Amarildo parte forte ma quasi sempre cede. Resto insieme al top degli over 55 sardi: Giovanni, Antonello e Pietro. Dopo il primo chilometro Giovanni cede leggermente e io resto attaccato agli altri due.
Foto Francesca Erbì


Assisto da vicinissimo alle schermaglie fra Antonello e Pietro che si giocano il primo posto di categoria fra i master 55. Fanno un bel ritmo, intorno a 3'30 al chilometro e li seguo ansimando. Davanti, come prevedevo, Amarildo si stacca da Angelo e le mie due lepri mi portano ad avvicinarlo sempre di più. Intorno al terzo chilometro Antonello perde leggermente terreno, lo lascio sfilare e continuo a seguire Pietro che mi porta a raggiungere e superare lo stanco Amarildo. E' proprio divertente fare gara di testa, mi capita raramente di poter controllare tatticamente la situazione. Ad ogni giro si passa davanti al pubblico amico e ricevo una calorosa accoglienza che mi aiuta a sopportare la fatica. Fa molto caldo; per fortuna Tore, ad ogni giro, ci offre refrigerio spruzzandoci d'acqua con una pompa ma comincio ad essere stanco, non sono abituato a questi ritmi e ho paura di forzare troppo. All'ultimo giro rallento leggermente, dietro ho un buon margine e mi lascio staccare da Pietro, accontentandomi di mantenere la posizione. Negli ultimi 100 metri faccio uno sprint dimostrativo per il pubblico, Pietro è irraggiungibile e dietro sono ancora più lontani. Arrivo terzo assoluto e secondo di categoria: bella soddisfazione, davvero. Cavoli a merenda forever!

Ma, era davvero questa gara l'obiettivo dei miei allenamenti lunghi in montagna? Ne dubito. Sabato prima della gara mi sono comprato una lampada frontale da 370 lumens, il che comincia a preoccuparmi: secondo me, ho in mente qualcosa.