venerdì 29 giugno 2018

Il crampetto del buon mattino.

Questa settimana, a partire dal lunedì o forse dalla domenica, non ricordo bene, ogni mattina mi sveglio con un crampo ad un polpaccio. Un giorno il destro, l'altro il sinistro. Martedì, per equità, si sono fatti sentire tutti e due. È una sveglia dura, dolorosa, che riporta nella realtà nel modo più crudo. Li sciolgo prendendo il piede e tirando ma, per un po', il demonietto resta là dentro, lo sento che si muove, che si rigira. Sono fastidiosi, dolorosi, sì, ma ormai, dopo 5 giorni, fanno parte di me, sono quasi domestici, basta un gesto, una tirata del piede e tornano a cuccia.
Un tempo venivano a trovarmi negli ultimi 10 km di gare lunghe e gloriose. Ricordo quello che mi si attaccò alla coscia a 3 km dall'arrivo della maratona, ultima frazione dell'ironman di Klagenfurt, dopo 10 ore di gara. Non riuscì a fermarmi; me lo portai dietro finché si staccò e mi raggiunse di nuovo solo mentre stavo lì incredulo a guardare il tempo che avevo fatto; ormai ero arrivato e anche lui, rendendo ancora più sofferto quel traguardo al mio esordio sulla mitica distanza, aveva contribuito alla gloria. Ricordo, poi, quelli che mi attanagliavano le gambe negli ultimi chilometri della ronda ghibellina; quello che invece mi buttò a terra nell'ultima discesa del trail del Marganai; quelli che mi negarono il secondo posto al trail dei cervi, … ora il mio traguardo è il letto e vengono a trovarmi lì, negli ultimi 10 km della notte.
Piccoli alien ormai lo so che abitate lì dentro e attendete le prime luci dell'alba per darmi un morso. So di essere la vostra colazione
È l'alba. Il gatto miagola per avere del cibo. Gli uccellini cinguettano salutando il nuovo giorno d'estate. I miei piccoli alien si svegliano e mi attanagliano un polpaccio. È ora; uno sbadiglio e mi alzo. Buon giorno anche a voi!



mercoledì 27 giugno 2018

Nuraghe Mereu

La sveglia è alle 5:50 ma alle 5:30 mi sveglio con una strana sensazione. Un odore, strano, cattivo, un fetore … spesso mi sveglio avvolto dal mio odore ma stavolta non sono io. Viene da fuori, dalla finestra lasciata aperta per l'aria fresca della notte. Sono 15 minuti brutti, non sono lucido e quell'odore mi sembra troppo penetrante; mi sento il naso pieno, le mucose irritate. Mi affaccio pensando di vedere una nube tossica giallo-verde a forma di teschio ma il cielo è terso. Pian piano mi rendo conto che è la solita puzza dell'inceneritore che, a volte. un vento beffardo mi infila nel naso. Credo che di notte brucino roba più sporca, più puzzolente approfittando del sonno per restituirci l'aria avvelenata, “cancerizzata”, piena dei nostri sprechi. Nel mondo moderno non si muore per gli ideali ma per mancanza di essi.
Moriremo tutti, ma intanto si va alla ricerca di aria pulita, là dove l'uomo cerca ancora l'equilibrio con la natura e sente ancora i suoi odori corporei. Verso il supramonte di Orgosolo.
Di solito sono puntuale, questa volta ho sbagliato il calcolo del tempo di percorrenza e ho ritardato di una ventina di minuti. Checco però ci tranquillizza: “siamo in orario, dovevamo partire alle 9 ma avevo detto alle 8:30 perché c'è Lorenzo” Di solito sono puntuale, dicevo, anche se non tutti lo sanno.

2 anni dopo, siamo gli stessi 4, io, Checco, Cirro e Gianneddu più Roberto e la piacevolissima presenza femminile di Laura e Luana che, come due zollette di zucchero, riescono ad addolcire perfino l'asprezza del supramonte.
Siamo in un mondo primordiale e fra i maschi invece c'è lotta per il ruolo di capobranco. Il piccoletto si mette in testa al gruppo ma dopo il terzo errore in dieci minuti, tutto il branco decide di seguire il maschio dominante munito di traccia gps.
Il comandante, però, invece di stare in testa a guidare gli uomini come Garibaldi o Che Guevara, sta in coda e ci guida dal posteriore, rimproverando, a posteriori, chi ha sbagliato: “non saresti dovuto andare di là”; è un po' come farsi guidare dal culo ma è tutto bello, divertente; è un mondo meraviglioso, unico. Le fonti ricche, i cinghialetti che attraversano il sentiero appetitosi
Le guglie di Montenovo San Giovanni


Il leccio che una ghianda ambiziosa ha fatto crescere in una roccia
Nuraghe Mereu, enorme, magnifico, integrato perfettamente in quella natura,
Balcone sulla gola di Gurropu.
Su disterru, il buco del culo di questo pianeta....
Sto tenendo una pisciata e l'ambizione me la fa immaginare come 100 metri di cascata. Torno su alla ricerca della pisciata perfetta dall'orlo della voragine. Mi avvicino; dovrei affacciarmi di più ma su disterru mi guarda male e mi dissuade. Intimorito, faccio un passo indietro. Il getto triste non raggiunge il bordo della voragine; provo a stringere il tubo per aumentare la pressione del getto ma senza successo; il getto viene assorbito interamente dalla terra del margine di sicurezza che mi ero lasciato davanti ai piedi per non precipitare. Ma forse è meglio così. Immagino il titolo dell'Unione “Anziano escursionista precipita nel baratro mentre sta urinando” e la vergogna di quando, cadavere, i soccorritori mi avrebbero trovato con i pantaloncini abbassati. Sconfitta cocente ma giusta, lo ammetto.

Ma anche la natura, purtroppo, a volte perde. I lecci millenari della foresta di sas baddes stanno morendo. È una vista impressionante. Le radici troncate, fuori dalla terra; giganti a terra, i corpi immensi sdraiati, uno sull'altro, come abbracciati. L'ordinata verticalità del bosco sconvolta in un disordine in cui è anche difficile orientarsi

L'idea che tutta questa meraviglia sia in pericolo, mi scava dentro; mi torna la sensazione di fetore e impotenza che annusavo stamattina. Questo tema, però, lo vorrei approfondire a parte.
Noi finiamo gloriosamente il nostro magnifico giro, tutti stanchi ma soddisfatti e uniti da una grande simpatia, nel senso letterale del termine di comunanza, armonia, condivisione di stati d'animo e di birre fresche.
Foto di Flavio, Luana e Gianni

venerdì 22 giugno 2018

Sa Crabarissa 2018

Sono cotto. Forse mi sono innamorato. Sicuramente sono cotto dal sole, dalla fatica, dal vino e dal cibo. Devo scappare se voglio arrivare in un posto sicuro prima di crollare. Se no, potrei restare lì, che forse il meglio deve ancora arrivare e, “chissenefrega!” lasciarmi prendere per mano e trascinare ancora nel vortice del ballo, fino a crollare. Ma parto. Mi gioco l'ultimo barlume di energia e lucidità per cercare di arrivare a casa sano e salvo, abbandonando le quadriglie. Mentre guido verso casa, il melone si aggira, rotolando sul fondo dell'auto, segnalandomi le curve pericolose, canto e ripenso alla giornata appena trascorsa. 
Tutte le foto sono di Gavino Sole. Grazie!

Dopo i 42 km a ritmo controllato di ieri a Carloforte, mi viene da andare veloce, buttarmi giù nei sentieri per ritrovare il brivido dell'adrenalina. Supero anche Mario e Mauro e scendo come un fulmine per il ripido sentiero nel bosco. Restava qualcosa nelle gambe, un po' di brio, di forza, erano ancora un po' crude e qui ho trovato gli stimoli, la compagnia e il divertimento giusto, per cuocerle a puntino. … ma tutta questa discesa non mi torna. Mi fermo e risalgo. Per fortuna hanno sbagliato tutti e non resto solo.
In quei posti e con quella compagnia meravigliosa si trova la chiave per trasformare ogni contrattempo in positivo. Anche perdersi è occasione di divertimento e Giovanni è maestro nell'offrire percorsi personalizzati.
Si arriva sparpagliati. Ognuno col suo tragitto personale, ognuno con un numero diverso di chilometri sul GPS che, magicamente, sono proprio i km previsti dalla sua tabella. Silvio conferma. E invece chi, come me e Caterina, viaggia a “polso nudo” e non ricorda il significato di “tabella”, si ritrova, giusti giusti, quelli che gli servivano all'anima. È così, giuro!
La pelle del viso e delle spalle era arrossata dalle 8 ore di esposizione di ieri ma ancora morbida. Ora la sento che cerca di staccarsi dalla carne. La immagino croccante e succulenta, come quella del maialetto che mi trovo di fronte. Anche lui è bello abbronzato. si è cotto da solo, si scioglie in bocca. Sono seduto vicino alla fonte del vino buono, Bruno, dove il bicchiere non resta mai vuoto. Niente di meglio, niente di meno. Non riesco ad immaginare qualcosa di più. La sazietà è completa. Questa mattina, mi chiedevo se non sarebbe stato meglio restare a casa a riposare … ora so la risposta. Grazie Giovanni, grazie Caterina!



Sono cotto. Forse mi sono innamorato. Sono felice. Sono sicuro che sa Crabarissa è sempre lì che mi aspetta nella sua maestosa bellezza. L'anno prossimo ballerò ancora con lei.

giovedì 21 giugno 2018

Tuna coast trail – Un cerchio quasi-perfetto

Giro dell'isola: seguire il mare finché non si torna al punto di partenza. La semplicità logica di un tale percorso, lo renderebbe matematicamente perfetto, topologicamente semplice, come un giro dl pista e mentalmente rilassante. Non ci si perde, guidati dal mare. Il giro completo dell'isola di San Pietro sarebbe lungo 50 km. Cifra tonda, percorso tondo, un cerchio perfetto. Non so a voi, ma a me l'idea di un percorso inteso come entità geometrica piace davvero. Una traversata, come può essere il “passatore”, il giro di un lago come la “strasimeno” o di un'isola, come potrebbe essere questo; non uno scarabocchio per divertirsi a correre ma un percorso di senso compiuto. Certo che, fare 50 km per partire dal punto A e tornare al punto A può sembrare privo di senso pratico. Matematicamente però è rilevante. I percorsi sono lineari, le superfici sono bidimensionali. Fra gli infiniti possibili percorsi su una superficie, quello perimetrale è forse il più significativo, in quanto circonda l'intero territorio. La conoscenza completa del bordo, può infatti definire in modo univoco ciò che vi è contenuto e l'esplorazione assume un senso di piacevole completezza; è un po' come completare la cornice di un puzzle.

Da questo punto di vista il “tuna coast trail” è bellissimo anche se può essere migliorato ulteriormente. Ma non c'è solo la bellezza matematica; il confine terra-mare o, più in generale, terra-acqua, è spesso estremamente affascinante, testimone di una lotta millenaria fra elementi, tra fasi condensate della materia, fra eruzione ed erosione, terra che esce dall'acqua e acqua che la porta via. Questa lotta potente e terribile lascia segni immani. La durezza della lotta si riflette nel paesaggio: resta solo roccia solida che resiste all'erosione, un territorio duro e segnato dal tempo.

A proposito di forze devastanti ...
I giorni immediatamente successivi alla chiusura delle scuole, forse sarebbe consigliabile restare chiusi in casa. Ci sono megatoni di energia allo stato puro che si libera e devasta tutto ciò che incontra. Non è cattiva educazione ma il giusto sfogo di prigionieri subito dopo la liberazione.
Spiaggia “la bobba”; il giorno prima della gara vedo tre bambini che sventolano, felici, delle bandierine rosse. Le bandiere rosse non sono lì perché il comunismo ha trionfato e neanche perché il mare è mosso. Avrebbero dovuto segnare il percorso del “tuna coast trail” ma ora sono trofei di guerra conquistati dall'orda.
Grazie a Matteo, Cristina, Enrico e tanti altri, si riesce a rimediare e sabato alle 8, si parte puntuali.
Seguo gli ultimi e resto, quasi subito con Melania, poi con Tiziano che aspetta Melania e, più tardi, con Simone che, stufo di perdersi, aspetta Tiziano che aspetta Melania. Non c'è sentiero. Si seguono i nastri arancioni e le bandierine rosse che guidano e suggeriscono passaggi fra le rocce, per attraversare canaloni e costeggiare il bordo della scogliera che si affaccia a picco sul mare. Si segue il perimetro. Tiziano ha occhio; va avanti e ci fa da riferimento. Io e Melania chiudiamo il gruppo. Brava Melania, prima e unica donna coraggiosa sul percorso lungo, e simpatica, riesce a parlare perfino con me.
Si alternano passaggi in gole selvagge, desertiche, crateri lunari, con passaggi fra case di villeggiatura ma dominano le rocce: rocce nere, poi rosse, poi bianche. Siamo al solstizio e il sole si alza fino a sfiorare lo zenit. Gli alberi sono pochissimi; non c'è ombra e le cinghie dello zainetto mi lasciano un tatuaggio bianco sulla pelle rossa.
Dall'abbronzatura, si può riconoscere l'attività praticata. C'è quella noiosamente uniforme di chi pratica lettini UV; quella bella, dal ginocchio in giù dei ciclisti; quella, bellissima, a canottiera di podisti, triatleti e operai edili e poi c'è la mia, fantastica; dalle due strisce, sul ventre e sul petto, si può intuire che sono stato legato, per ore, a qualcosa: trailer legato ad uno zainetto o prigioniero di guerra, legato ad un totem. La pelle è rossa. Sono io l'indiano. La carne è rossa, sono il tonno, l'eroe. Segni di tortura lo testimoniano.
Si corre poco. Mi adeguo facilmente al ritmo lento. I piedi mi sembrano pesanti, goffi, il terreno duro e pieno di inciampi, tanto che ho l'impressione che se anche fossi solo, non andrei più svelto. Un paio di sederate me lo confermano. Il mare è sempre presente, vicinissimo; il bordo dell'isola però è rialzato e l'acqua resta ad una distanza verticale di qualche decina di metri. La planimetria sfiora il mare ma l'altimetria non scende quasi mai sotto i 20 metri. La terra si difende dall'erosione arroccandosi e separandoci dal mare. A volte sembra di arrivarci ma poi sfugge. Voglio spegnere il fuoco che mi sta bruciando la pelle e mi prometto che a cala fico, mi butterò in acqua.
Mentre gli altri si attardano al ristoro, finalmente posso realizzare il mio sogno. Cala fico, profonda insenatura, magnifica e dura, ricoperta da grosse rocce arrotondate dal mare e barche abbandonate. In una di quelle, molti anni prima, avevo passato la notte, approfittando del fondo liscio per appoggiare il sacco a pelo. L'acqua è freschissima e morbida. Mi ci adagio per un paio di minuti. È così bello che penso che dovrebbe essere obbligatorio tuffarsi. Basterebbe mettere la bandierina su una boa e la punzonatura su una barca.
Quando, al trentesimo km il percorso lascia la costa, tagliando per l'interno, sono stanco e completamente cotto dal sole ma mi dispiace; avrei preferito continuare lungo la costa. Nonostante la distanza maggiore e il fondo più tecnico, la presenza del mare, di quel mare spettacolare, avrebbe dato significato alla fatica oltre che un senso logico e topo-logico compiuto al percorso. Stiamo abbandonando la perfezione matematica della circonferenza per fare un taglio arbitrario; stiamo abbandonando il fascino della lotta terra-acqua per un territorio noiosamente placido. Striscio lungo il bordo della strada, per cercare l'ombra di cespugli e muri. Ecco, finalmente si vedono dall'alto le case di Carloforte, colorate pittoresche, ombrose. Tiziano e Simone ci aspettano e, dopo 42 km e più di 8 ore, arriviamo insieme. È stata una giornata bellissima, quasi perfetta.
Mi resta il miraggio di un percorso misto terra-acqua o terra-birra, solido-liquido con bandierine nel mare fissate su boe e birre fresche al culmine delle risalite verso l'interno. Beh, due tuffi e sei birre fresche li ho comunque avuti. Mi è mancato solo il giro completo, per chiudere il cerchio perfetto. Lo aspetto, con fiducia, l'anno prossimo!

venerdì 15 giugno 2018

Il massacro di carloforteapache – Tuna coast trail preview

Carloforte, isola di San Pietro. 1992 circa, giugno o giudilì. Siamo due americani e 4 o 5 “continentali”, tutti scienziati arrivati al CRS4 per contribuire allo sviluppo scientifico e tecnologico della Sardegna. Le misure sono OK. L'isola non è grandissima, si può fare il periplo. Tempo = distanza / velocità. In due giorni si fa. 
La tabella di marcia si inceppa quasi subito, sulla scogliera gli spazi sono frattali e sfuggono ad una definizione lineare di distanza; si avanza lentamente e la velocità prevista non è praticabile. Il caldo ci fa buttare in mare e succhia le energie. Ombra zero. Gli apache, nascosti dietro le rocce, cominciano ad attaccare. Alan, per sicurezza, si era portato dietro 5 litri d'acqua, fornello a gas e riserva alimentare; troppo peso per avanzare sulle rocce scure sotto il sole senza sciogliersi. La mia futura moglie si offre di accompagnarlo a cala fico, punto previsto per il pernotto, tagliando per la strada e io mi offro di accompagnarli. Mi dispiace, perché su quelle scogliere, in quelle insenature profonde, in quel territorio selvaggio scolpito dal mare e dal vento, in quell'inferno di rocce calde e pungenti mi sentivo in paradiso. Sulla strada, lunga, assolata trovammo anche un passaggio nel cassone di una diligenza apixedda cabriolet. “È stravolto”, dicemmo al conducente indicando Alan, e lui ci prese su per pietà. Arrivati a cala fico, Alan tirò fuori il fornello e si cucinò gli spaghetti. Anche noi mangiammo qualcosa. Ci sistemammo sul fondo di una barca e ci infilammo nel sacco a pelo. Ricordo che gli altri arrivarono stravolti quando era già buio da un paio d'ore. Il giorno dopo, erano tutti talmente stanchi che decidemmo di tornare al porto per la strada principale, su sporco asfalto. Un manipolo di scienziati teorici coraggiosi, sconfitti dalla realtà.
26 anni dopo, mi si presenta l'occasione di riprovare. Il percorso del “tuna coast trail”, ricalca, in buona parte, quello previsto in quel lontano week end nel lontano west. Non c'è Alan, non credo che nessuno si porterà dietro fornelli a gas, la mia futura moglie si è sposata. Saremo in pochi, un manipolo di podisti coraggiosi in balia degli apache nascosti negli anfratti rocciosi ma soprattutto delle calde rocce nascoste sotto gli apache. Sarò la retroguardia, accompagnerò gli ultimi e guarderò loro le spalle dagli attacchi del sole a picco e dalle punture dei fichi d'india, quegli indiani dolci e fichi.
Domani, a carloforteapache, sarà un magnifico massacro.
Intanto mi bevo una bella birra fresca. So che domani me la sognerò, così me la godo di più.

lunedì 11 giugno 2018

Riu Alinu, astrazione e realtà

L'astrazione
Riu alinu”, che bel nome: “riu alinu”; pensatelo sulla bocca di una ragazza con le labbra che restano semiaperte e la lingua che va a sfiorare il palato. “ri-u a-li-nu”, che grazia, che leggerezza … ora provate ad immaginare la stessa bocca che pronuncia “is cioffus”. Non c'è paragone. Con un nome così sexy, mi viene voglia di andarci. Cerco su google “riu alinu”, vedo la foto e resto folgorato: voglio entrare in quella foto!

Faccio un piano di massima; ricordo un bel sentiero nel bosco che avevo percorso anni prima in mtb e la bella strada che, a mezza costa, porta nella zona della cascata. Trovare l'accesso non sarà difficile, non siamo principianti, poi le cascate, di solito, non si allontanano dai torrenti.
E in quella foto sono entrato, con un bel gruppo di amici ed è stato meraviglioso come immaginavo. Sentire la forza dell'acqua, freschissima e potente, che spinge verso la seconda cascata; essere là dentro, dentro quel nome, dentro quella foto a realizzare quell'astrazione, dentro quell'acqua, sotto quella parete di roccia maestosa, è come un sogno che si avvera. Poi, riparto per primo e mentre aspetto che gli altri risalgono dalla cascata, mi butto giù in un sentiero ripidissimo per vedere se vada alla cascata inferiore, sotto un altro salto di roccia. Il tempo di affacciarmi, fare due foto e risalgo di corsa per invitare tutti con entusiasmo a vedere la seconda meraviglia.



L'astrazione quasi sempre si proietta nella realtà con una corrispondenza univoca ma basta un dettaglio, infimo, come un sasso al posto sbagliato o un momento di distrazione che in un attimo ci si ritrovi completamente altrove, in una realtà inattesa, dura ma non per questo meno reale, anzi, più concreta, fatta di terra, sudore e sofferenza.

La realtà
Poi, un sasso fuori posto, o un passo sbagliato e la seconda cascata l'ha fatta Priamo.
Quando a Priamo si gira il piede fratturando il malleolo, siamo in fondo ad una scarpata circa 50 metri di dislivello sotto il sentiero, a 300 metri dalla strada forestale, chiusa al traffico da una sbarra, a 10 chilometri dalle auto e a 15 km dal punto più vicino in cui prende il telefono. Ero accanto a lui. Ho visto il piede che si girava sotto il suo peso e ho sentito l'urlo “Ah! Ragazzi! Ho rotto il piede!”
Priamo è un gigante, in tutti i sensi. Un gigante di 100 chili; per lui uscire fuori da lì, da quel posto magnifico e maledetto, trascinandosi su col solo piede sinistro aiutandosi con mani e sedere su per la scarpata franosa, aggrappandosi a rami secchi e a pietre instabili, arrivare alla strada è stata un'impresa da gigante. Dolore, giramenti di testa, sete, stanchezza lo buttano, letteralmente, a terra. Quando torno giù al torrente a prendere acqua per riempirgli le borracce, non guardo neanche la cascata, ora si pensa ad altro, a uscire di là, da quella realtà pesante, disallineata e tornare di qua, dove gli eventi seguono le linee previste.

La realtà è deragliata e in un attimo tutto è cambiato. La natura presenta l'altra faccia, quella dura; anche il tempo va per conto suo e ci si ritrova in un'altra epoca, in cui si sale senza ascensore, si cerca aiuto senza telefono, ci si affida alle proprie forze e a quelle del gruppo, che gli uomini, in quell'epoca, erano meravigliosi e in caso di bisogno si aiutavano senza indugio; ci si affida anche alla fortuna, che, quando sei là fuori, niente è più sicuro; al primo errore può seguirne facilmente un secondo. A mio padre, Cesare, fu fatale il secondo errore, quel salto disperato per cercare di rimediare al primo e scappare alla furia delle acque.

Ma quando le conseguenze sono rimediabili, resta il ricordo di una giornata magnifica quanto dura, un album di fotografie e uno di radiografie. È l'altro lato della vita, quello che la completa; che dà un senso e un valore allo stare di qua seguendo le nostre linee prefissate, che dà un significato speciale al gruppo di amici ... e, beh, anche la birra ha tutto un altro sapore.

domenica 3 giugno 2018

Is cioffus, dove il tempo si è fermato



Foto di Luca e Marco, con Lello e Nello a fare compagnia 

Al di là di s'enna sa Craba si entra nel mondo selvaggio. Le viste sul mare, sullo stagno, su Cagliari e la sua zona industriale che appaiono al di qua, lasciano posto a distese infinite di alberi e rocce. Movimenti di aerei, petroliere e traffico automobilistico lasciano il posto al fluttuare delle foglie al vento e allo scorrere dei torrenti. La paletta di colori è dominata da sfumature di verde e di marrone, puntellate dal viola del cisto.
Fascino e disagio. Rovi e mosche cavalline. Civiltà antiche ridotte a rovine, frammenti di aerei, resti di ossa, testimoniano di un territorio magnifico e terribile. Anche il capraro, per decenni unico abitante della zona, qualche anno fa si è impiccato.
Se, spostando i rovi, ci si inoltra verso la gola, si trova un angolo di bosco intatto da molti secoli. Qui neanche i carbonai sono arrivati a trasformare alberi millenari in alimento per la civiltà industriale. Qui l'acqua non è quella domestica che esce dal rubinetto a comando, è acqua selvatica che scorre libera e scava, ostinata. Mi ci immergo per lasciarmi modellare e sentire la delicatezza della sua mano d'artista.
E si entra nella gola come bocconi masticati.



Lo sguardo si deve alzare, la sosta è obbligatoria. Il tempo si neutralizza, i gps si fermano. Il trail si interrompe, non è più neanche escursione ma immersione. il tempo si è fermato qui, bloccato in un presente che persiste da millenni, intangibile; si rifugia qui, il tempo, in fuga dal cinetismo moderno. Questa staticità Incombe maestosa ma trasmette forza e sicurezza, riparo dai vortici, dalle turbolenze imprevedibili dei “tempi moderni”; la viscosità temporale tiene appiccicati giorni, mesi e anni; qui è così alta che non sono entrati i carbonai e non entra e non entrerà mai neanche l'economia, il debito pubblico. Visti da qui, in questa immobilità, i cosiddetti “problemi” appaiono come balene spiaggiate.

Benvenuti nel mondo selvaggio. Benvenuti a is cioffus, dove il tempo si è fermato.