Uta, sembra una cosa seria. È quasi
uno stato unito: basta aggiungere una lettera mutah e diventa Utah.
Penso a capoterrah, maracalagonish, ma non funziona. Invece Utha sì.
Capitale Salt lake city, per gli indigeni Sa bidd'e lacu saladu.
Perché parlavo di Huta? Ah, già, ieri si correva la mezza. La mezza
non è tutto, è mezza, quindi vale quello che vale: metà appunto.
Sto forse tergiversando? Ebbene sì e ho buoni motivi per farlo:
Bruno è arrivato 3 minuti prima di me, i miei fantasmi mi hanno
deriso vedendomi arrancare e le quotazioni del mio seme sono
precipitate. Ecco ho confessato tutto e ora che ho ritrovato la pace
interiore ne posso parlare con serenità.
Foto di Francesca Erbì |
Si parte, si corre, le gambe sono dure,
l'asfalto è duro, le scarpe sono dure, le molle dei piedi sono
arrugginite. In queste due settimane ho fatto un po' di abitudine
alla velocità ma ho trascurato la durezza, correndo quasi sempre su
sterrato. Quant'era morbido il molentargius! Qui invece l'asfalto mi
martella i polpacci e cerco, più volte ma invano, un assetto di
corsa che mi consenta di ridurre l'impatto dei colpi sulla carne. Un
ironman dovrebbe essere più duro dell'asfalto e lasciare le impronte
dei piedi metallici scavate nel bitume ma non succede; forse non sono
più ironman. Dicono che il percorso fosse veloce ma non è vero.
Altro che veloce: era assolutamente immobile e ho dovuto fare io
tutto il movimento. Fin dal km 3 capisco che non riuscirò a tenere
il ritmo previsto di 4' al km e che Bruno e tutti i miei soliti
rivali (a parte uno alto e pelato) mi batteranno. Da lì all'arrivo
saranno 18 km di resistenza e di domande sul perché di tanta
lentezza e sul perché si debba soffrire tanto per tornare due volte
al punto di partenza. Per fortuna 21 km passano relativamente veloci
e in 1h25 e spicci arrivo, appena prima di trovare le risposte
definitive ai miei dubbi esistenziali.
Foto di Gavino Sole |
Tonino mi riaccompagna alla mia auto
che avevo lasciato a Capoterra. Salgo, infilo le chiavi e parte la
musica. La macchina invece no. Spengo, riaccendo e invece del rumore
del motorino di avviamento si sente la musica dei fiery furnaces.
Dopo altri due tentativi capisco che la mia auto è ormai ridotta ad
un impianto stereo. Chiamo a credito Maria ma non risponde. Potrei
insistere o provare a chiamare il numero di casa ma decido di non
farlo. Esco dalla cabina stereo e mi avvio a piedi verso casa, per il
primo minuto camminando, poi accennando una corsetta. Ogni tre passi
i calzoni calano e devo ritirarli su con la mano prima che finiscano
in terra. Allora svuoto le tasche, tenendo in mano il portafogli e
liberi dal peso del denaro ora i calzoni stanno su da soli. La
maglietta e le mutande di cotone si inzuppano subito di sudore, non
vedo l'ora di pisciare, sono stanco ma la corsa è rilassata; devo
solo andare dal punto A al punto B senza che nessuno mi controlli il
tempo e con una forte motivazione: tornare a casa, aprire il frigo e prendere una birra! Questi 4 km
imprevisti mi fanno ritrovare il significato originale della corsa e ripensare
con serenità al futuro.
Fra due settimane c'è Cagliari. Sembra una
cosa seria. È quasi una città americana: Calgary, …
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