martedì 30 ottobre 2018

Terzo trail di Capoterra – Cronache dal coma.

A un certo punto, i neuroni finiscono; resta allora la speranza di essere arrivato ad un punto in cui tutto possa andare avanti anche senza di te. I miei sono finiti alle 22 della vigilia del giorno di gara.
La sveglia suona alle 6, proprio nel momento in cui sono seduto sul water. Non mi preoccupo che possa svegliare qualcuno perché è già da un'ora che sto facendo rumore, stampando fogli per la spunta e due zoom della mappa del percorso …mi sono svegliato con questi pensieri; penso al briefing per i volontari sul percorso e prendo qualche appunto per quello che dovrò dire agli atleti prima della partenza su un foglio che scomparirà nei grovigli del caos; ormai è da ieri sera che navigo a vista. Avrei potuto svegliarmi con pensieri diversi o non svegliarmi affatto. Il foglio delle “cose da fare domani” è fermo a quel fatidico momento in cui l'ultimo neurone mi ha lasciato e oggi è già domani.
Ricordo il momento in cui se n'è andato. Dopo che Corrado, ieri pomeriggio, aveva casualmente scoperto che qualcuno aveva spostato i segni dal percorso per indicare molto bene una strada sbagliata, il piccolo neurone ha trovato la soluzione per sistemarli e ha lasciato il campo disfatto. Ora tutto sembra un miracolo. La pretesa di avere tutto sotto controllo è un'illusione. Senza quella scoperta casuale, avrebbero tutti sbagliato strada e sarebbe finita come la prima edizione, nel caos assoluto. La mano che ha spostato il nastro potrebbe essere la stessa di 3 anni fa o forse è una coincidenza. Cosa importa? La fortuna è con noi, non resta che lei e la si segue ad occhi chiusi e con l'encefalogramma piatto.
Il tempo passa inesorabile e mi immergo, ebete, nel mare di atleti, amici, sorrisi e piacevoli chiacchiere. I piccoli problemi organizzativi mi passano attraverso e li cedo, irrisolti, al primo collaboratore che mi passa accanto.
Ecco anche i 3 “ragazzi di piazza Repubblica” che invece di trascorrere la giornata seduti sulle panchine della piazza a chiacchierare, si sono offerti di aiutare e li guardo lavorare senza sosta con l'occhio paterno quasi commosso.
Il briefing dei volontari sul percorso segue tracce di pensiero fossile, quello per gli atleti anche.
Sono partiti! Lo sparo dello starter non mi sveglia ma non importa.
A un certo punto i neuroni finiscono ma il motore ormai è avviato e lo guardo girare con aria ebete.
I controlli sul percorso funzionano bene. Sono tutti bravi e ben istruiti. Anche qui, nella zona di partenza e arrivo, sono tutti bravi. Manca la bombola, ci pensa Gavino. Mancano i buoni pasto, c'è Carlo. Loro hanno ancora qualche neurone in vita e sanno cosa fare. Un'atleta compare dal nulla. Un errore di percorso l'ha rimandata all'arrivo anzitempo. È solo una, per fortuna. Ricordo ancora la prima edizione quando 5 minuti dopo la partenza hanno cominciato a spuntare atleti da tutte le parti, ognuno col suo percorso personale. Oggi no, la fortuna ci sta guidando bene.
Mi chiama Checco. Qualcuno ha spostato dei nastri, invitando ad entrare nel vecchio percorso, distrutto dalle ultime piogge. Non credo ai complotti. Immagino che un atleta che aveva fatto la prova percorso sul vecchio tracciato abbia voluto, in buona fede, indicare bene quello che lui era convinto che fosse il percorso giusto. Ecco, nel foglio del briefing perso nei grovigli del caos c'era scritto di avvertire gli atleti che il percorso era stato modificato dopo l'ultima alluvione. Maledetti neuroni, perché siete scappati? Checco rimuove i nastri e col suo aiuto e qualche disagio si sistema anche questa.
L'unico momento di vero panico è arrivato quando, finito il primo fusto di birra, non si riusciva a svitarlo per attaccare il secondo. Ma è sempre Priamo che risolve. Intanto gli atleti continuano ad arrivare e la festa sale di tono; i fusti non oppongono più resistenza e si lasciano sfilare uno dopo l'altro. Sono tutti felici e io mi lascio cullare dai loro sorrisi.
Lascio in giro buste piene di soldi e Stefano, attento, me le recupera. Lascio in giro anche il bellissimo libro che mi aveva appena regalato Matteo e anche quello, dopo una breve latitanza, tornerà alla base. In auto, trovo i buoni regalo che avrei dovuto mettere nelle buste dei premi e a casa trovo lo striscione che avrei dovuto appendere sopra la linea dell'arrivo. Ma chi se ne importa? A un certo punto i neuroni finiscono ma il mondo va avanti benissimo da solo.

giovedì 18 ottobre 2018

Chiocciolina?

Perché la chiamate “chiocciolina”? Parliamone.
Quando, oltre vent'anni fa, un vecchio compagno di liceo mi aveva dettato il suo indirizzo di posta elettronica, avevo scritto, sull'agenda, “chiocciolina” tutto per esteso. Ricordo che mentre lo stavo scrivendo lui mi guardava in modo strano ma senza dire niente. Più tardi ho capito il motivo di quello sguardo e mi sono un po' vergognato anche se non ce n'era motivo. Per me quel simbolo era ed è “at” o, in italiano “su”, breve ed esatto.
Perché, mentre il mondo cerca di risparmiare tempo e neuroni riducendo al minimo parole e concetti, si dovrebbe usare quel termine smisurato? E perché proprio chiocciolina? Chi ha visto una chiocciolina in quello scarabocchio, secondo il test di Rorschach, potrebbe essere uno psicopatico. Facciamo, allora, che ognuno dà la sua interpretazione a quel simbolo e la usa come dicitura. Io, per esempio, in quel simbolo ci vedo uno stronzetto arrotolato o un uovo fritto. E voi, cosa ci vedete? Mandatemi un'e-mail con le vostre risposte all'indirizzo “pisanilorenzo65 stronzetto gmail brufolo com”

domenica 14 ottobre 2018

UTSS 2018 - Seconda parte: Le sofferenze degli altri

Alle 17:40 è chiaro che gli ultimi arrivati si sono ritirati lì, a cala luna, in gommone c'è posto e non ci sono dispersi. Sono la “scopa”; da ora all'arrivo sta a me assicurarmi che tutti i resti umani siano “ritirati” e non vengano “dispersi” nell'ambiente. Ma questa terminologia non mi piace. Mi sento piuttosto la mamma oca che scorta i suoi paperotti fino al traguardo o, se ciò fosse impossibile, li lascia in buone mani in un posto sicuro. L'ultimo è partito almeno 40 minuti prima e ho tempo per un bell'inseguimento in solitaria. Obiettivo? Arrivare. Possibilmente entro il tempo massimo, per quanto il mio ruolo di chiudi-pista me lo consenta. Mi piacerebbe raggiungere Agnese che mi aveva chiesto di accompagnarla ma è impossibile: è partita da oltre due ore e io ho il divieto di sorpasso. Fra me e lei ci sono una decina di atleti di cui 3 o 4 che all'ultimo ristoro sono rimasti fermi con lo sguardo nel vuoto per decine di minuti … ecco, non potendoli superare, mi piacerebbe capire cosa ci sia da vedere lì dentro, in quel vuoto oltre ogni muro, in quella notte infinita che ci aspetta.
Lungo la codula, il rio scorre ricco d'acqua costringendo in diversi punti a mettere i piedi in ammollo. Acqua, sabbia, pietre, scarpe lisce e fondo bagnato. Ci sono tutti gli ingredienti per massacrare i piedi. Guardando fisso il terreno, devo usare la coda degli occhi per ammirare le pareti della codula che si allontana sinuosamente dal mare. Cerco di tenere un ritmo allegro. Per poter scortare l'ultimo lo devo almeno raggiungere. Poco prima del ristoro ecco Fabrice. Cammina, soffre e medita. Mi chiede informazioni sui cancelli orari, sul percorso che manca. Cerco di incoraggiarlo ma senza mentire e la realtà è piena di pietre.
Al ristoro Fabrice decide di ritirarsi, si siede e comincia a tremare. Quando si rompe l'equilibrio fra l'interno e l'esterno, fra il nostro mondo interiore e il mondo esterno, la tensione accumulata si sfoga in brividi che scuotono la pelle accapponata. Impediscono di compiere qualsiasi azione che richieda movimento fine ma se ci si abbandona ad essi, diventano piacevoli; è la nostra stessa pelle che ci abbraccia per sfogare la tensione e riportare l'equilibrio. Bevo una birra e aspetto che rispondano con la radio per verificare che non si sia perso nessuno. Ho il via libera e lascio Fabrice ancora scosso da brividi avvolto dal telo termico davanti al fuoco. Non aveva mai fatto tanta strada, oggi ha superato i suoi limiti e al di là ha trovato brividi d'emozione e sofferenza. Sono un professionista e non mi devo affezionare. Avanti un altro! Sono di nuovo da solo, con una mezz'ora da recuperare, di nuovo a buon ritmo. Comincia a scurirsi poi continua a scurirsi e poi finisce di scurirsi. Arrivo al ristoro insieme alla notte. Ci trovo Michele da Bergamo, un altro di quelli con lo sguardo rivolto dentro, forse in fuga da tutte queste pietre. Mi offrono maialetto arrosto e accetto con entusiasmo tutti quegli amminoacidi essenziali arricchiti da altri meno essenziali dal punto di vista nutrizionale ma ancora più essenziali per il sapore. Michele non ha nessuna fretta di uscire dal suo viaggio interiore per ricominciare a soffrire nel viaggio esteriore e aspetta che io finisca di banchettare. Accendo la lampada frontale e partiamo. Quando raggiungiamo una strada in comoda discesa vedo che non riesce a correre per un dolore alla caviglia. Sarà una lunga notte. Taciturno, a torso nudo nonostante l'umidità notturna e qualche folata di vento freddo, cammina deciso verso il traguardo.
Ogni tanto spengo la lampada e il cielo si accende …. un cielo così non l'avevo mai visto. Tante stelle nuove bianche splendenti, ma anche macchiette di luce arancione, forse galassie lontane. Si sale e davanti a me, poco sopra gli alberi, c'è un grosso astro rossiccio. Lo conosco bene. La strada punta, diretta, su marte. È lì che stiamo andando. C'è un cammino pietroso che porta direttamente dal supramonte a marte. Pare che anche lì ci siano tante pietre; saremo i primi uomini, su marte, anche se arriveremo con le vesciche ai piedi. Coppie di punti luminosi appaiono impressionanti all'improvviso. Marziani? No, sono gli occhi spalancati di mucche dello Cheshire. Le querce e le rocce, illuminate dalla lampada, diventano giganti.
Due anni prima avevo percorso quelle stesse strade ma era giorno e la percezione ora è diversa. Qualche tratto lo riconosco anche se appare sempre più tardi di quando me lo aspettavo. Attendo con preoccupazione le difficoltà del finale ma intanto si va avanti a passo veloce. Veramente non così veloce ma veloce abbastanza per raggiungere Laurent, che cammina ancora più lentamente. “Ca va?” Gli chiedo “Pas trop, j'ai ampoules aux pieds.” Ecco che ho imparato una nuova parola in francese: “ampoules=vesciche”. Ogni passo è un lamento. I lamenti in francese somigliano molto ai nostri e capisco che sarà dura.
Michele ci lascia ma non va lontano. Vedo la sua lampada che si ferma o torna indietro, disorientato, ci aspetta per essere sicuro della strada e poi riparte. Ricominciano i guadi, i piedi a mollo, poi il passaggio fra i massi nel greto di un torrente. Laurent scivola su una pietra e rischia di cadere completamente in acqua e farsi ancora più male. Michele si ferma a vomitare. Che notte.
Finalmente strada. In salita Laurent soffre meno e va spedito. Resto con Michele sempre più in crisi. I chilometri non passano mai. Prima dell'ultimo ristoro incontriamo un fuoristrada del presidio. Dopo un breve scambio d'informazioni, ripartiamo. Dopo 20 metri, Michele decide di tornare da loro per non ripartire. Mancano solo 9 chilometri ma mancano anche ben 9000 passi, 9000 coltellate, tre ore di sofferenza. È troppo. Lo lascio in buone mani. Un “coraggio” e riparto. Un professionista non si affeziona, mai. Riparto di corsa per l'ultima volta. Ho bisogno di sfogarmi e corro per tutta la salita, fino al ristoro dove raggiungo Laurent. Almeno uno lo voglio portare all'arrivo! Laurent, ti tocca, dovrai soffrire come un cane per darmi questa soddisfazione. È sabato sera, l'una e mezza passata; in discoteca si balla. Anche noi continuiamo con il nostro “lento” ballando da pietra a pietra. È un ballo goffo, incerto, estenuante. Arriva la discesa. Gliela avevo descritta come “un peu technique” per non spaventarlo. Il lungo ghiaione ripidissimo lo mette in crisi. Fra la paura di cadere e il dolore ad ogni passo sembra una missione impossibile. Dopo i primi passi gli suggerisco di darmi i bastoncini e di scendere con il sedere. È rinato! Finalmente riesce ad avanzare senza soffrire ad ogni passo, tanto che, se fosse stato possibile, avrebbe continuato con il sedere fino a Baunei.
Di notte il tempo passa veloce e la nostra quasi immobilità non pesa eccessivamente. Siamo in una dimensione nuova, dilatata. Il tempo limite evapora ma noi andiamo avanti. “Je veux cette medaille pour ma fille”. Mi viene un brivido … Non gli chiedo per discrezione il motivo della dedica alla figlia. Immagino situazioni difficili o forse drammatiche e la sofferenza come via per la redenzione.
Sull'ultimo tratto di strada facile, prima dell'asfalto, raccolgo una pietra di calcare, la sfrego bene con la mano per togliere la terra e la metto in tasca.
Alle 4 chiama Matteo. Sul percorso restiamo solo noi. “Vi vengo a prendere?” “No, Matteo, se puoi aspettaci, fra 20 minuti saremo lì”. Il tempo è strano. La metà è diventata metà della metà. I tempi raddoppiano, anzi, alle 4h40 siamo ancora in strada. Neanche l'asfalto è una soluzione. Sul liscio, le vesciche fanno come un cuscinetto, tipo materassino, che Laurent sente come una serie di pieghe dolorose su tutta la pianta. Saremmo tutti curiosi di vedere cosa c'è sotto a quei piedi. Magari il materassino ha anche la paperetta. Ma nessuno ha il coraggio di guardare. Tantomeno lui.
Non mi pesa per niente di essere ancora per strada alle 4 e mezza del mattino ma mi sento in colpa per aver fatto aspettare Matteo così a lungo e sono impaziente ma man mano che il traguardo si avvicina, l'impazienza si trasforma in soddisfazione e orgoglio per Laurent e per la sua medaglia così sofferta. Ecco l'arrivo, più che l'entusiasmo del successo si festeggia il sollievo della fine della sofferenza, come quando si esce da un brutto mal di pancia e la vita sorride a bocca larga. Ma, dopo la fine della sofferenza, resterà qualcosa di molto più grande, ne sono sicuro. “Laurent, j'ai un souvenir pour toi”. Tiro fuori dalla tasca il sasso di calcare bianco e glielo porgo con un sorriso. “Merci, Lorenzo.” Sorride anche lui. Grazie a te.
Storie di eroi. L'eroismo di Laurent e quello di Matteo, Stefano, Alessandra che ci hanno aspettati svegli per accoglierci; e voi? Perché non eravate lì? Cosa c'era di meglio da fare a Baunei, alle 4:45 di domenica mattina, che festeggiare l'arrivo di un eroe?

giovedì 11 ottobre 2018

Giove Pluvio

La natura ha voluto celebrare il decimo anniversario dell'alluvione del 22 ottobre 2008 con i fuochi d'artificio. Per chi avesse dimenticato, è tornata a ricordarci la potenzialità distruttiva dell'acqua.

È opinione corrente che i fulmini non siano frecce infuocate scagliate sulla nostra testa da Giove Pluvio come reazione alle nostre cattive azioni. Gli scienziati non hanno trovato infatti alcuna correlazione statistica fra, per esempio, gli atti di adulterio e le precipitazioni temporalesche.
Dovremmo però essere coscienti che altre nostre azioni hanno invece conseguenze dirette sul clima. Se sono ancora gli dei che ci fulminano, i peccati per i quali ci scagliano saette sulla testa sono quindi completamente nuovi. Dio non ci punisce più se fornichiamo ma se sprechiamo, disboschiamo o consumiamo all'eccesso, sì. L'insegnamento chiave dei nuovi 10 comandamenti è “vivere in equilibrio con la natura”, che non vuol dire tornare all'età della pietra. Il progresso è parte integrante della natura umana; dev'essere però indirizzato tenendo conto dell'uomo, della natura e del loro equilibrio e non lasciato in balia delle follie dei mercati.
Il demone del mercato ci spinge ottusamente sempre nella stessa direzione anche quando si sia ben superato il punto d'equilibrio in cui si trova la situazione ottimale. Mangiare per superare la fame senza fermarsi alla sazietà ma continuare fino ad avere mal di pancia per l'eccesso di cibo, superare le necessità e accumulare oggetti senza senso togliendo tempo alla vita. Siamo ingordi e cupidi; sembra così stupido patire per l'eccesso eppure lo facciamo regolarmente. Ecco, non dovremo farlo più, non solo perché ci fa stare male ma anche perché è “peccato”, ci fa cadere i fulmini sulla testa e contribuisce a rovinare questo splendido pianeta.

martedì 9 ottobre 2018

UTSS 2018 – Prima parte. L'attesa

Nel 2016 ho corso la 90km tutta intera e nel 2017 ho fatto servizio scopa della prima metà. Siamo nel 2018 e mi manca solo di fare la scopa della seconda metà, accompagnando gli ultimi atleti da cala luna fino all'arrivo di Baunei. Mi inoltrerò in territori a me sconosciuti, oltre il confine delle 15 ore non sono mai arrivato; gli ultimi finiranno in piena notte, dopo 20 ore o più di pietre e sudore, raggiungendo livelli di “scomfort” al di fuori della mia immaginazione. Li accompagnerò in questo viaggio negli abissi della passione senza, personalmente, soffrire troppo.
Ma prima si gode. Parto per la crociera in gommone con lo zainetto regolamentare da trailer ma anche la borsetta con telo, costume e occhialini per nuotare. Poco oltre la guglia di perda longa, ci avviciniamo alla costa per ammirare una cascata rigogliosa che scarica in mare un torrente d'acqua piovana insieme a piccole particelle di pelle di piede dei podisti che l'hanno dovuto guadare. Fa parte del programma di lavaggio: ammollo e sfregamento su pietra calcarea e poi nuovo ciclo di ammollo e sfregamento fino ad eliminare ogni traccia di sporco, di pelle e di essere umano. È la vendetta del calcare: per una volta è l'incrostazione che elimina l'uomo e non viceversa.

 
Sbarcato a cala luna, mentre gli altri vanno ad organizzare il ristoro, io resto nella spiaggia più bella del mondo, completamente deserta. Laguna verde, sabbia bianca, mare celeste, contornati da monumenti di roccia con comode grotte vista mare. Dopo una nuotata meravigliosa e una passeggiata in spiaggia, mi immergo nell'acqua freschissima della laguna e raggiungo il punto ristoro in tempo per vedere il passaggio di tutti gli atleti.
Poco prima delle 11 arriva già il primo, il polacchino Gorczyca, poi tutti gli altri, fra cui anche molti amici: Stefano continua, Enrico si ferma.
Devo pisciare ma voglio evitare con cura la toilette e, con le mie infradito deragliate e senza suola, salgo a cercare un bagno panoramico, percorrendo, a ritroso, il sentiero da cui scendono gli atleti. Dopo 10 passi mi trovo di fronte a Gianni, il comandante. Ha i crampi anche alle orecchie mi dice. Probabilmente li ha anche al cervello e decide di ritirarsi, come anche Daniel, per la prima volta nella lunga vita da trailer.
Dov'ero rimasto? Ah, già, il bagno. Riparto. Ogni passo è un piccolo problema da risolvere. Dove appoggio la suola? Qual è il sasso meno scivoloso e meno appuntito? Il bagno è in fondo a destra, lo vedo, ma il corridoio per raggiungerlo è irto di trappole. Bastano questi 200 metri che l'idea dei 90 chilometri assume una concretezza assoluta, col peso specifico del calcare moltiplicato per 90 e diviso per 0.2.
Mi volto verso Cala Luna che risplende meravigliosamente morbida, per non parlare della morbidezza ineguagliabile di quel mare celeste e trasparente. Piedi all'inferno e testa in paradiso; l'essenza dell'UTSS è in questo contrasto fra il duro e il celestiale. Guardo gli omini sulla spiaggia e rilasso la vescica. Ah, che pisciata meravigliosa!
Altri passaggi, altri amici: Giuseppe scarico si ferma, Agnese super carica non la ferma niente e nessuno, un Paolo riparte spedito, un altro Paolo si ferma.
Gli atleti da podio si servono con calma e ripartono. Altri si siedono, prendono una birra, mangiano qualcosa, due chiacchiere e ripartono. Qualcuno si siede, mangia, beve e non parte. Resta lì, seduto, con gli occhi aperti, rivolti verso l'interno per dieci minuti o anche più. “Tutto bene?” “Sì”. “Ca va?” “Oui”. Basta questo. Non voglio disturbare quel loro viaggio verso l'anima.
Alle 16 quelli che arriveranno entro il tempo massimo sono già partiti tutti. Restano quelli che si ritireranno o che arriveranno fuori tempo massimo. Stiamo entrando nel mio territorio. È l'umanità che dovrò assistere, scortare, sostenere e spingere per non lasciare resti umani su quei sentieri magnifici e terribili. Non potrò spazzare tutto e lascerò scie di sofferenza e sudore, resti di pensieri che quelle pietre appuntite grattano via dai piedi e dall'anima.