Alle 17:40 è chiaro che gli ultimi
arrivati si sono ritirati lì, a cala luna, in gommone c'è posto e
non ci sono dispersi. Sono la “scopa”; da ora all'arrivo sta a me
assicurarmi che tutti i resti umani siano “ritirati” e non
vengano “dispersi” nell'ambiente. Ma questa terminologia non mi
piace. Mi sento piuttosto la mamma oca che scorta i suoi paperotti
fino al traguardo o, se ciò fosse impossibile, li lascia in buone
mani in un posto sicuro. L'ultimo è partito almeno 40 minuti prima e
ho tempo per un bell'inseguimento in solitaria. Obiettivo? Arrivare.
Possibilmente entro il tempo massimo, per quanto il mio ruolo di
chiudi-pista me lo consenta. Mi piacerebbe raggiungere Agnese che mi
aveva chiesto di accompagnarla ma è impossibile: è partita da oltre
due ore e io ho il divieto di sorpasso. Fra me e lei ci sono una
decina di atleti di cui 3 o 4 che all'ultimo ristoro sono rimasti
fermi con lo sguardo nel vuoto per decine di minuti … ecco, non
potendoli superare, mi piacerebbe capire cosa ci sia da vedere lì
dentro, in quel vuoto oltre ogni muro, in quella notte infinita che
ci aspetta.
Lungo la codula, il rio scorre ricco
d'acqua costringendo in diversi punti a mettere i piedi in ammollo.
Acqua, sabbia, pietre, scarpe lisce e fondo bagnato. Ci sono tutti
gli ingredienti per massacrare i piedi. Guardando fisso il terreno,
devo usare la coda degli occhi per ammirare le pareti della codula
che si allontana sinuosamente dal mare. Cerco di tenere un ritmo
allegro. Per poter scortare l'ultimo lo devo almeno raggiungere. Poco
prima del ristoro ecco Fabrice. Cammina, soffre e medita. Mi chiede
informazioni sui cancelli orari, sul percorso che manca. Cerco di
incoraggiarlo ma senza mentire e la realtà è piena di pietre.
Al ristoro Fabrice decide di ritirarsi,
si siede e comincia a tremare. Quando si rompe l'equilibrio fra
l'interno e l'esterno, fra il nostro mondo interiore e il mondo
esterno, la tensione accumulata si sfoga in brividi che scuotono la
pelle accapponata. Impediscono di compiere qualsiasi azione che
richieda movimento fine ma se ci si abbandona ad essi, diventano
piacevoli; è la nostra stessa pelle che ci abbraccia per sfogare la
tensione e riportare l'equilibrio. Bevo una birra e aspetto che
rispondano con la radio per verificare che non si sia perso nessuno.
Ho il via libera e lascio Fabrice ancora scosso da brividi avvolto
dal telo termico davanti al fuoco. Non aveva mai fatto tanta strada,
oggi ha superato i suoi limiti e al di là ha trovato brividi
d'emozione e sofferenza. Sono un professionista e non mi devo
affezionare. Avanti un altro! Sono di nuovo da solo, con una mezz'ora
da recuperare, di nuovo a buon ritmo. Comincia a scurirsi poi
continua a scurirsi e poi finisce di scurirsi. Arrivo al ristoro
insieme alla notte. Ci trovo Michele da Bergamo, un altro di quelli
con lo sguardo rivolto dentro, forse in fuga da tutte queste pietre.
Mi offrono maialetto arrosto e accetto con entusiasmo tutti quegli
amminoacidi essenziali arricchiti da altri meno essenziali dal punto
di vista nutrizionale ma ancora più essenziali per il sapore.
Michele non ha nessuna fretta di uscire dal suo viaggio interiore per
ricominciare a soffrire nel viaggio esteriore e aspetta che io
finisca di banchettare. Accendo la lampada frontale e partiamo.
Quando raggiungiamo una strada in comoda discesa vedo che non riesce
a correre per un dolore alla caviglia. Sarà una lunga notte.
Taciturno, a torso nudo nonostante l'umidità notturna e qualche
folata di vento freddo, cammina deciso verso il traguardo.
Ogni tanto spengo la lampada e il cielo
si accende …. un cielo così non l'avevo mai visto. Tante stelle
nuove bianche splendenti, ma anche macchiette di luce arancione,
forse galassie lontane. Si sale e davanti a me, poco sopra gli
alberi, c'è un grosso astro rossiccio. Lo conosco bene. La strada
punta, diretta, su marte. È lì che stiamo andando. C'è un cammino
pietroso che porta direttamente dal supramonte a marte. Pare che
anche lì ci siano tante pietre; saremo i primi uomini, su marte,
anche se arriveremo con le vesciche ai piedi. Coppie di punti
luminosi appaiono impressionanti all'improvviso. Marziani? No, sono
gli occhi spalancati di mucche dello Cheshire. Le querce e le rocce,
illuminate dalla lampada, diventano giganti.
Due anni prima avevo percorso quelle
stesse strade ma era giorno e la percezione ora è diversa. Qualche
tratto lo riconosco anche se appare sempre più tardi di quando me lo
aspettavo. Attendo con preoccupazione le difficoltà del finale ma
intanto si va avanti a passo veloce. Veramente non così veloce ma
veloce abbastanza per raggiungere Laurent, che cammina ancora più
lentamente. “Ca va?” Gli chiedo “Pas trop, j'ai ampoules aux
pieds.” Ecco che ho imparato una nuova parola in francese:
“ampoules=vesciche”. Ogni passo è un lamento. I lamenti in
francese somigliano molto ai nostri e capisco che sarà dura.
Michele ci lascia ma non va
lontano. Vedo la sua lampada che si ferma o torna indietro,
disorientato, ci aspetta per essere sicuro della strada e poi
riparte. Ricominciano i guadi, i piedi a mollo, poi il passaggio fra
i massi nel greto di un torrente. Laurent scivola su una pietra e
rischia di cadere completamente in acqua e farsi ancora più male.
Michele si ferma a vomitare. Che notte.
Finalmente strada. In salita
Laurent soffre meno e va spedito. Resto con Michele sempre più in
crisi. I chilometri non passano mai. Prima dell'ultimo ristoro
incontriamo un fuoristrada del presidio. Dopo un breve scambio
d'informazioni, ripartiamo. Dopo 20 metri, Michele decide di tornare
da loro per non ripartire. Mancano solo 9 chilometri ma mancano anche
ben 9000 passi, 9000 coltellate, tre ore di sofferenza. È troppo. Lo
lascio in buone mani. Un “coraggio” e riparto. Un professionista
non si affeziona, mai. Riparto di corsa per l'ultima volta. Ho
bisogno di sfogarmi e corro per tutta la salita, fino al ristoro dove
raggiungo Laurent. Almeno uno lo voglio portare all'arrivo! Laurent,
ti tocca, dovrai soffrire come un cane per darmi questa
soddisfazione. È sabato sera, l'una e mezza passata; in discoteca si
balla. Anche noi continuiamo con il nostro “lento” ballando da
pietra a pietra. È un ballo goffo, incerto, estenuante. Arriva la
discesa. Gliela avevo descritta come “un peu technique” per non
spaventarlo. Il lungo ghiaione ripidissimo lo mette in crisi. Fra la
paura di cadere e il dolore ad ogni passo sembra una missione
impossibile. Dopo i primi passi gli suggerisco di darmi i bastoncini
e di scendere con il sedere. È rinato! Finalmente riesce ad avanzare
senza soffrire ad ogni passo, tanto che, se fosse stato possibile,
avrebbe continuato con il sedere fino a Baunei.
Di notte il tempo passa veloce e la
nostra quasi immobilità non pesa eccessivamente. Siamo in una
dimensione nuova, dilatata. Il tempo limite evapora ma noi andiamo
avanti. “Je veux cette medaille pour ma fille”. Mi viene un
brivido … Non gli chiedo per discrezione il motivo della dedica
alla figlia. Immagino situazioni difficili o forse drammatiche e la
sofferenza come via per la redenzione.
Sull'ultimo tratto di strada facile,
prima dell'asfalto, raccolgo una pietra di calcare, la sfrego bene
con la mano per togliere la terra e la metto in tasca.
Alle 4 chiama Matteo. Sul percorso
restiamo solo noi. “Vi vengo a prendere?” “No, Matteo, se puoi
aspettaci, fra 20 minuti saremo lì”. Il tempo è strano. La metà
è diventata metà della metà. I tempi raddoppiano, anzi, alle 4h40
siamo ancora in strada. Neanche l'asfalto è una soluzione. Sul
liscio, le vesciche fanno come un cuscinetto, tipo materassino, che
Laurent sente come una serie di pieghe dolorose su tutta la pianta.
Saremmo tutti curiosi di vedere cosa c'è sotto a quei piedi. Magari
il materassino ha anche la paperetta. Ma nessuno ha il coraggio di
guardare. Tantomeno lui.
Non mi pesa per niente di essere ancora
per strada alle 4 e mezza del mattino ma mi sento in colpa per aver
fatto aspettare Matteo così a lungo e sono impaziente ma man mano
che il traguardo si avvicina, l'impazienza si trasforma in
soddisfazione e orgoglio per Laurent e per la sua medaglia così
sofferta. Ecco l'arrivo, più che l'entusiasmo del successo si
festeggia il sollievo della fine della sofferenza, come quando si
esce da un brutto mal di pancia e la vita sorride a bocca larga. Ma,
dopo la fine della sofferenza, resterà qualcosa di molto più
grande, ne sono sicuro. “Laurent, j'ai un souvenir pour toi”.
Tiro fuori dalla tasca il sasso di calcare bianco e glielo porgo con
un sorriso. “Merci, Lorenzo.” Sorride anche lui. Grazie a te.
Storie di eroi. L'eroismo di
Laurent e quello di Matteo, Stefano, Alessandra che ci hanno
aspettati svegli per accoglierci; e voi? Perché non eravate lì?
Cosa c'era di meglio da fare a Baunei, alle 4:45 di domenica mattina,
che festeggiare l'arrivo di un eroe?
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