domenica 14 ottobre 2018

UTSS 2018 - Seconda parte: Le sofferenze degli altri

Alle 17:40 è chiaro che gli ultimi arrivati si sono ritirati lì, a cala luna, in gommone c'è posto e non ci sono dispersi. Sono la “scopa”; da ora all'arrivo sta a me assicurarmi che tutti i resti umani siano “ritirati” e non vengano “dispersi” nell'ambiente. Ma questa terminologia non mi piace. Mi sento piuttosto la mamma oca che scorta i suoi paperotti fino al traguardo o, se ciò fosse impossibile, li lascia in buone mani in un posto sicuro. L'ultimo è partito almeno 40 minuti prima e ho tempo per un bell'inseguimento in solitaria. Obiettivo? Arrivare. Possibilmente entro il tempo massimo, per quanto il mio ruolo di chiudi-pista me lo consenta. Mi piacerebbe raggiungere Agnese che mi aveva chiesto di accompagnarla ma è impossibile: è partita da oltre due ore e io ho il divieto di sorpasso. Fra me e lei ci sono una decina di atleti di cui 3 o 4 che all'ultimo ristoro sono rimasti fermi con lo sguardo nel vuoto per decine di minuti … ecco, non potendoli superare, mi piacerebbe capire cosa ci sia da vedere lì dentro, in quel vuoto oltre ogni muro, in quella notte infinita che ci aspetta.
Lungo la codula, il rio scorre ricco d'acqua costringendo in diversi punti a mettere i piedi in ammollo. Acqua, sabbia, pietre, scarpe lisce e fondo bagnato. Ci sono tutti gli ingredienti per massacrare i piedi. Guardando fisso il terreno, devo usare la coda degli occhi per ammirare le pareti della codula che si allontana sinuosamente dal mare. Cerco di tenere un ritmo allegro. Per poter scortare l'ultimo lo devo almeno raggiungere. Poco prima del ristoro ecco Fabrice. Cammina, soffre e medita. Mi chiede informazioni sui cancelli orari, sul percorso che manca. Cerco di incoraggiarlo ma senza mentire e la realtà è piena di pietre.
Al ristoro Fabrice decide di ritirarsi, si siede e comincia a tremare. Quando si rompe l'equilibrio fra l'interno e l'esterno, fra il nostro mondo interiore e il mondo esterno, la tensione accumulata si sfoga in brividi che scuotono la pelle accapponata. Impediscono di compiere qualsiasi azione che richieda movimento fine ma se ci si abbandona ad essi, diventano piacevoli; è la nostra stessa pelle che ci abbraccia per sfogare la tensione e riportare l'equilibrio. Bevo una birra e aspetto che rispondano con la radio per verificare che non si sia perso nessuno. Ho il via libera e lascio Fabrice ancora scosso da brividi avvolto dal telo termico davanti al fuoco. Non aveva mai fatto tanta strada, oggi ha superato i suoi limiti e al di là ha trovato brividi d'emozione e sofferenza. Sono un professionista e non mi devo affezionare. Avanti un altro! Sono di nuovo da solo, con una mezz'ora da recuperare, di nuovo a buon ritmo. Comincia a scurirsi poi continua a scurirsi e poi finisce di scurirsi. Arrivo al ristoro insieme alla notte. Ci trovo Michele da Bergamo, un altro di quelli con lo sguardo rivolto dentro, forse in fuga da tutte queste pietre. Mi offrono maialetto arrosto e accetto con entusiasmo tutti quegli amminoacidi essenziali arricchiti da altri meno essenziali dal punto di vista nutrizionale ma ancora più essenziali per il sapore. Michele non ha nessuna fretta di uscire dal suo viaggio interiore per ricominciare a soffrire nel viaggio esteriore e aspetta che io finisca di banchettare. Accendo la lampada frontale e partiamo. Quando raggiungiamo una strada in comoda discesa vedo che non riesce a correre per un dolore alla caviglia. Sarà una lunga notte. Taciturno, a torso nudo nonostante l'umidità notturna e qualche folata di vento freddo, cammina deciso verso il traguardo.
Ogni tanto spengo la lampada e il cielo si accende …. un cielo così non l'avevo mai visto. Tante stelle nuove bianche splendenti, ma anche macchiette di luce arancione, forse galassie lontane. Si sale e davanti a me, poco sopra gli alberi, c'è un grosso astro rossiccio. Lo conosco bene. La strada punta, diretta, su marte. È lì che stiamo andando. C'è un cammino pietroso che porta direttamente dal supramonte a marte. Pare che anche lì ci siano tante pietre; saremo i primi uomini, su marte, anche se arriveremo con le vesciche ai piedi. Coppie di punti luminosi appaiono impressionanti all'improvviso. Marziani? No, sono gli occhi spalancati di mucche dello Cheshire. Le querce e le rocce, illuminate dalla lampada, diventano giganti.
Due anni prima avevo percorso quelle stesse strade ma era giorno e la percezione ora è diversa. Qualche tratto lo riconosco anche se appare sempre più tardi di quando me lo aspettavo. Attendo con preoccupazione le difficoltà del finale ma intanto si va avanti a passo veloce. Veramente non così veloce ma veloce abbastanza per raggiungere Laurent, che cammina ancora più lentamente. “Ca va?” Gli chiedo “Pas trop, j'ai ampoules aux pieds.” Ecco che ho imparato una nuova parola in francese: “ampoules=vesciche”. Ogni passo è un lamento. I lamenti in francese somigliano molto ai nostri e capisco che sarà dura.
Michele ci lascia ma non va lontano. Vedo la sua lampada che si ferma o torna indietro, disorientato, ci aspetta per essere sicuro della strada e poi riparte. Ricominciano i guadi, i piedi a mollo, poi il passaggio fra i massi nel greto di un torrente. Laurent scivola su una pietra e rischia di cadere completamente in acqua e farsi ancora più male. Michele si ferma a vomitare. Che notte.
Finalmente strada. In salita Laurent soffre meno e va spedito. Resto con Michele sempre più in crisi. I chilometri non passano mai. Prima dell'ultimo ristoro incontriamo un fuoristrada del presidio. Dopo un breve scambio d'informazioni, ripartiamo. Dopo 20 metri, Michele decide di tornare da loro per non ripartire. Mancano solo 9 chilometri ma mancano anche ben 9000 passi, 9000 coltellate, tre ore di sofferenza. È troppo. Lo lascio in buone mani. Un “coraggio” e riparto. Un professionista non si affeziona, mai. Riparto di corsa per l'ultima volta. Ho bisogno di sfogarmi e corro per tutta la salita, fino al ristoro dove raggiungo Laurent. Almeno uno lo voglio portare all'arrivo! Laurent, ti tocca, dovrai soffrire come un cane per darmi questa soddisfazione. È sabato sera, l'una e mezza passata; in discoteca si balla. Anche noi continuiamo con il nostro “lento” ballando da pietra a pietra. È un ballo goffo, incerto, estenuante. Arriva la discesa. Gliela avevo descritta come “un peu technique” per non spaventarlo. Il lungo ghiaione ripidissimo lo mette in crisi. Fra la paura di cadere e il dolore ad ogni passo sembra una missione impossibile. Dopo i primi passi gli suggerisco di darmi i bastoncini e di scendere con il sedere. È rinato! Finalmente riesce ad avanzare senza soffrire ad ogni passo, tanto che, se fosse stato possibile, avrebbe continuato con il sedere fino a Baunei.
Di notte il tempo passa veloce e la nostra quasi immobilità non pesa eccessivamente. Siamo in una dimensione nuova, dilatata. Il tempo limite evapora ma noi andiamo avanti. “Je veux cette medaille pour ma fille”. Mi viene un brivido … Non gli chiedo per discrezione il motivo della dedica alla figlia. Immagino situazioni difficili o forse drammatiche e la sofferenza come via per la redenzione.
Sull'ultimo tratto di strada facile, prima dell'asfalto, raccolgo una pietra di calcare, la sfrego bene con la mano per togliere la terra e la metto in tasca.
Alle 4 chiama Matteo. Sul percorso restiamo solo noi. “Vi vengo a prendere?” “No, Matteo, se puoi aspettaci, fra 20 minuti saremo lì”. Il tempo è strano. La metà è diventata metà della metà. I tempi raddoppiano, anzi, alle 4h40 siamo ancora in strada. Neanche l'asfalto è una soluzione. Sul liscio, le vesciche fanno come un cuscinetto, tipo materassino, che Laurent sente come una serie di pieghe dolorose su tutta la pianta. Saremmo tutti curiosi di vedere cosa c'è sotto a quei piedi. Magari il materassino ha anche la paperetta. Ma nessuno ha il coraggio di guardare. Tantomeno lui.
Non mi pesa per niente di essere ancora per strada alle 4 e mezza del mattino ma mi sento in colpa per aver fatto aspettare Matteo così a lungo e sono impaziente ma man mano che il traguardo si avvicina, l'impazienza si trasforma in soddisfazione e orgoglio per Laurent e per la sua medaglia così sofferta. Ecco l'arrivo, più che l'entusiasmo del successo si festeggia il sollievo della fine della sofferenza, come quando si esce da un brutto mal di pancia e la vita sorride a bocca larga. Ma, dopo la fine della sofferenza, resterà qualcosa di molto più grande, ne sono sicuro. “Laurent, j'ai un souvenir pour toi”. Tiro fuori dalla tasca il sasso di calcare bianco e glielo porgo con un sorriso. “Merci, Lorenzo.” Sorride anche lui. Grazie a te.
Storie di eroi. L'eroismo di Laurent e quello di Matteo, Stefano, Alessandra che ci hanno aspettati svegli per accoglierci; e voi? Perché non eravate lì? Cosa c'era di meglio da fare a Baunei, alle 4:45 di domenica mattina, che festeggiare l'arrivo di un eroe?

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