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Foto Gianluca Zuddas |
Dopo alcuni mesi in cui i miei
chilometraggi di allenamento settimanale non hanno mai raggiunto i 50
km, nei 9 giorni che hanno preceduto la maratona ho corso un
centinaio di chilometri di cui 65 intorno al ritmo maratona – fra
4'00 e 4'30 al km; ho superato una crisi ai polpacci che mi obbligava ad attaccarmi alla ringhiera per scendere le scale; ho usato 5 paia diverse
di scarpe riesumando per l'occasione anche le gloriose “lunaracer
3” che dopo aver corso il passatore, due ironman, maratone e molto
altro, ormai giacevano senza lacci in attesa di un degno
pensionamento; ho organizzato il “big saturday” delle
“scarparie”, girando, per otto volte, intorno al campo sportivo e
cambiando scarpe ad ogni giro. Le vecchie lunaracer si sono piazzate
prime come comfort ma seconde come sensazione di reattività,
superate nella finalissima all'ultimo giro da un chilometro, dalle
“lunar speed” molto più nuove ma già con squarci nella tomaia.
Niente da fare neanche questa volta per le brooks e le adidas.
Tutto questo faceva parte dei precetti
che il velleitario mi aveva suggerito (link) per provare a vincere la
mia grande sfida: preparare in 9 giorni una maratona sotto le 3 ore.
Quando mi alzo le gambe sono ancora
indolenzite. Era inevitabile e non me ne preoccupo troppo. La pancia
borbotta qualcosa e l'azzittisco con una seduta formidabile. Dopo un
caffelatte con miele e qualche biscotto, alle 7:30 si parte per il
capoluogo. Incontro Massimo, il pacemaker delle 3 ore; andrò con lui
o, almeno, ci proverò. Dopo un breve riscaldamento ci si mette in
griglia. Tutti pronti ma non si parte. Ci sono problemi sul percorso
e si aspetterà un'ora prima che siano risolti e quest'attesa
imprevista cambierà le mie prospettive. Incontro, infatti, Marco,
reduce – decimo assoluto e primo italiano – dalla Marathon des
Sables, e mi faccio raccontare della sua esperienza. Riesco così ad
assaporare, senza neanche un granello di sabbia fra le dita dei
piedi, un assaggio di quell'incredibile esperienza, e, con la sua storia appassionante, mi fa intuire come,
uscendo completamente al di fuori della propria zona di comfort, si
aprano mondi e si scoprano risorse inimmaginabili.
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Foto Gavino Sole |
Intanto però ci saranno le piccole
sofferenze e i piccoli disagi di oggi. Finalmente si parte e piano
piano mi avvicino a Massimo che lancia richiami animaleschi per
radunare il suo gregge.
Il vento alza bruscolini che si
infilano negli occhi e penso alla sabbia del deserto che si infila
dappertutto a manciate, anche nel naso, fino a non far sentire più
nessun odore se non quello di integratori che dopo qualche giorno,
impregna indelebilmente pelle e vestiti. La mia piccola sfida, al confronto,
è un'inezia. Via via il nostro gruppo si assottiglia. Anche
Francesco, ottimo maratoneta della mia categoria ma oggi in crisi di
motivazioni, si lascia staccare e, intorno al trentesimo chilometro, restiamo in
due. Massimo non mi vuole perdere – per un pacemaker arrivare da
soli è un insuccesso – e concentra tutte le sue attenzioni su di
me. “Vuoi bere?” Mi prende l'acqua; “gasata o naturale?” Mi
chiede. “Non ci sarebbe un caffè?” Se insistessi andrebbe
davvero al bar a prendermelo. Approfitto spudoratamente della sua
disponibilità, lasciandomi servire e trascinare. Il vento contrario
si fa sentire e mentre cerco riparo dietro Massimo, i suoi palloncini
mi sbattono in faccia; sono morbidi, non come le sferzate di sabbia
del deserto. È mezzogiorno passato e fa caldo ma non è certo il
caldo secco del deserto che ti prosciuga in pochi chilometri quando
hai finito la scorta d'acqua. Sento le energie calare e prendo la
confezione di gel che ho conservato nelle mutande, non comodissima ma
sempre meglio di uno zaino da otto chili.
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Foto Arnaldo Aru |
Le gambe sono sempre più rigide; per
seguire Massimo, devo lottare contro la stanchezza ma, per fortuna,
ieri notte ho dormito in un comodo letto e non per terra in una tenda
di beduini cercando di appoggiare la testa dove le pietre sono meno
appuntite e stanotte ritroverò ancora il mio comodo letto.
Dopo il trentaseiesimo chilometro, a
causa dello scarso allenamento, soffro anche le piccole salite e i
cavalcavia. Non sono certo dune alte 50 metri ma mi costringono a
rallentare l'andatura e Massimo, paziente, mi aspetta e continua a
spronarmi. Ormai è fatta, abbiamo un buon margine per chiudere sotto
le tre ore. Vorrei rallentare ulteriormente ma Massimo non me lo
permette. Non voglio deluderlo e, soffrendo, cerco di resistere.
Finalmente ecco l'arco dell'arrivo: il cronometro scandisce 2h58'52.
La mia piccola sfida è vinta. Forse, altre, più serie, seguiranno.
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Foto Giorgio Piras |
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