lunedì 15 giugno 2020

Lo Stelvio scende a Capoterra

Se il passo dello Stelvio è a 2700m, il passo di genne soi è a 240m. Se lo Stelvio ha 48 tornanti, genne soi ne ha 3. Se lo Stelvio ha il ghiacciaio, noi abbiamo la ghiacciaia, femmina, che ci tiene in fresco le birre. Non ne farei una questione di genere. Insomma, è quasi la stessa cosa, solo più piccolo e femmina.
L’amico Gianmarco aveva deciso di partecipare alla versione virtuale della maratona dello Stelvio (https://it.stelviomarathon.it/virtualrun) percorrendo un circuito di 2.5 km con 145m di dislivello per salire a genne soi, nel parco di is olias. Facendo 17 giri, avrebbe raggiunto i 42.2km e 2500m D+ della gara originale. A differenza di quella, in cui la discesa è quasi inesistente, il suo circuito prevede altrettanto dislivello in discesa ed è quindi decisamente più duro.
Abbiamo deciso di aiutarlo nell’impresa organizzando un tavolo ristoro serio con acqua, caffè, anguria, pasticcini e, ovviamente, birra fresca una sorta di “bar Sport” ma per sportivi veri e di invitare chiunque volesse ad unirsi a lui.
Sabato, nonotante il brutto tempo, siamo una ventina a correre, su e giù da genne soi.
Gianmarco viene a trovarci ma, purtroppo, non può correre, fermato da un problema fisico ma ci sono ben altri 4 che si cimentano sulla distanza dei 42 km, portandola anche a termine e tanti altri amici ed amiche ognuno col suo obiettivo di fatica e divertimento.
Ci sono anche io, senza iscrizione, senza gps e con gli obiettivi tutti da inventare. La prima idea era di fare il giro dei bar, bevendo una birra ad ogni giro, fino a cadere a terra stremato. Poi le incombenze organizzative mi hanno fatto desistere e fino alle 9 resto ad assistere quelli che corrono. Poi parto anch’io.
Piove e decido di indossare il capo tecnico migliore, quello che lascia scivolare l’acqua senza appesantirsi, che si asciuga più velocemente, che si riscalda dall’interno, che traspira senza appiccicarsi alla pelle; allora tolgo la maglietta fradicia e resto a torso nudo con la mia pelle taglia “M”. Il ticchettio della pioggia sulla pelle nuda, il piacere di incrociare gli altri o fare un pezzo di strada con loro, di staccarli in salita, di tagliare i tornanti nelle discese, di sentire le cosce che bruciano nei tratti di salita che superano il 20% ma senza mai smettere di correre, mi riempiono di quelle sensazioni che provavo in gara e che mi hanno fatto appassionare a questo sport. Non ho obiettivi, se non quello di divertirmi a correre e il piacere dura 5 giri, fino a quando la schiena inizia a darmi fastidio nelle ripide discese e i muscoli ad irrigidirsi in salita. Allora mi fermo al bar e mi siedo dietro al bancone, non per servire ma per servirmi e scambiare 4 chiacchiere con i clienti.
Abbiamo contato circa 200 passaggi al bar Sport, facce sempre più sconvolte dalla stanchezza ma sempre più umane, sorridenti, bisognose di incitamenti, assetate di socialità. Qualcuno, anche se non ha sete, entra per scambiare due chiacchiere o solo per gli occhi dolci della barista. Anche quelli che le prime volte passavano frettolosi solo a bere un caffè o un bicchiere d’acqua, ora si fermano a ristorarsi con calma. Ormai sono clienti abituali, gente che entra con un sorriso e chiede: “il solito”, ognuno con il suo bicchiere personalizzato. Riesco a convincere qualcuno che la birra non è solo per il dopo corsa ma ha la sua ragion d’essere anche durante e i tappi volano.
Sabato lo Stelvio è sceso a Capoterra portando nuvole e pioggia, corsa, divertimento. Una corsa virtuale piena di vita reale, di birra e sudore, di contatti sociali che, pur non nella contemporaneità dell’assembramento dei classici “dopo gara”, ma diluiti e ripetuti nel tempo alla frequenza di risonanza, sono stati mezzo di condivisione e scambio, veicolando e amplificando la passione comune per la corsa in montagna. È stata, insomma, un’esperienza molto positiva e da ripetere.
Alla prossima!

lunedì 20 aprile 2020

Tutti al mare!


I grandi marchi rispondono.
Dal preservativo alla lotta contro il coronavirus. “Siamo, da sempre stati in prima linea per la prevenzione degli incidenti”. La DureZ risponde alla Plexiglas e, considerate le richieste del mercato, ha iniziato a convertire i suoi impianti nella produzione di mega-preservativi in cui ci potremo infilare tutti interi per produrre, consumare, andare in spiaggia, copulare e soprattutto crepare in tutta sicurezza.

mercoledì 15 aprile 2020

Com'è cambiato il "senso civico" degli italiani nell'era covid.


L’italiano è bravo a muoversi nel caos perché è capace di giudicare le situazioni e adattarsi ad esse … o forse lo era. Scoprite le piccole differenze fra questi due casi tipici di due mesi fa e di oggi.

Consideriamo una regola fissata genericamente per garantire la sicurezza di sé stessi e degli altri. Un caso tipico è il “limite di velocità” per le auto sulle strade.
Queste regole sono scritte seguendo criteri generici. Per esempio, il limite è fissato a 50km/h in presenza di un incrocio, senza valutare il tipo di incrocio, la visiblità o altro. Ci sono poi delle situazioni in cui il rispetto della regola aumenta il rischio di incidente anziché diminuirlo. Per esempio, se si rispetta il limite in un tratto di strada in cui quasi nessuno lo rispetta, si aumenta il rischio di tamponamenti o di incidenti causati dai sorpassi che gli altri automobilisti sarebbero “costretti” a fare per rispettare la loro tabella di marcia.
Un cittadino può seguire la regola alla lettera oppure fare valutazioni proprie e non seguirla rischiando una contravvenzione. Molti italiani, per esempio, in certe occasioni, superano il limite di velocità perché lo giudicano eccessivamente limitante e non proporzionato al rischio effettivo o, addirittura, più rischioso del mancato ripetto.
Se un italiano vede la polizia appostata per i controlli, il più delle volte avverte gli altri cittadini per non fargli prendere la contravvenzione.

Consideriamo una regola fissata genericamente per garantire la sicurezza di sé stessi e degli altri. Un caso tipico è il “limite di distanza dall’abitazione” per passeggiate e jogging.
Queste regole sono scritte seguendo criteri generici. Per esempio, il limite è fissato a 200 m senza valutare se ci si trovi in città, in campagna o addirittura in un deserto. Ci sono poi delle situazioni in cui il rispetto della regola aumenta il rischio di incidente anziché diminuirlo. Per esempio, se si rispetta il limite in una zona densamente abitata, il rischio di incontrare persone e favorire il contagio è più alto di quello che si correrebbe se ci si allontanasse verso zone meno popolate.
Un cittadino può seguire la regola alla lettera oppure fare valutazioni proprie e non seguirla rischiando una contravvenzione. Qualche italiano, per esempio, in certe occasioni, supera il limite di distanza perché lo giudica eccessivamente limitante e non proporzionato al rischio effettivo o, addirittura, più rischioso del mancato ripetto.
Se un italiano vede la polizia appostata per i controlli, il più delle volte avverte la polizia per far prendere la contravvenzione agli altri cittadini.

sabato 11 aprile 2020

Le nuove settimane


12 febbraio 2022 – 100a settimana di quarantena.
Le settimane sono ormai cadenzate dalla raccolta differenziata: umedì, cartedì, plastichedì, secchedì, vetredì … la domenica, finalmente, si può riposare che non passano ma molti ne sentono la mancanza. Che emozione, infatti, quando passa il camioncino! Ci si veste per portare fuori l’immondizia con abiti intonati al colore del bidone: marron merda di umedì e così via e ci si profuma di conseguenza. Dopo lunghi preparativi, l’emozione sale e arriva il grande momento di aprire l’uscio!
La grande uscita si ferma lì, alla soglia. Come da regolamento, un piede fuori dal cancelletto e l’altro dentro … dai! Oggi che non mi vede nessuno esco anche col sinistro … le gambe tremano dall’emozione. Le donne con i tacchi alti e tracce di rossetto che traspaiono dalla mascherina impiastrata all’interno, gli uomini con completi color bidone mentre i bambini restano affacciati alla finestra in ammirazione, che è una cosa da adulti. “Che figata! Da grande voglio portare fuori il vetro”.

giovedì 2 aprile 2020

Il mio primo trail dopo il covid.


Preparo lo zainetto per la prima uscita post covid19. Non bisogna mai scordare il materiale obbligatorio. Può sembrare inutile perché sono oggetti che sai che quasi sicuramente non dovrai usare ma li devi portare per non trovarti nella situazione di dire “Cazzo, non ho portato il … . E ora?” Così, per evitare incidenti, nello zainetto si infilano le solite cose: il telo termico, il fischietto, la benda elastica, la scatola dei preservativi … ecco, poi non bisogna dimenticare le dotazioni di questa nuova era: mascherina e righello per misurare le distanze.
Dovrei essere abbastanza allenato. Negli ultimi 2 mesi ho corso una maratona in balcone e una mezza nel bagno di casa e poi ho fatto tanto di quel plank che la tartaruga addominale potrebbe riportarmi a casa da sola con le sue zampette, come quella che ho incontrato una volta sul sentiero ...
Finalmente sono fuori. Seguo il sentiero guardando in terra per cercare la famosa buchetta citata dai terroristi del web: “… e se correndo infilassi il piede in una buca, ti prendessi una distorsione, la caviglia ti si gonfiasse, andassi al pronto soccorso, ...” Eccola! La vedo mentre cerca di nascondersi fra due grossi sassi di granito. Esiste davvero! Maledetta buchetta. Per colpa tua siamo rimasti a correre in casa come degli idioti per 2 mesi. Ah, inutile dire che gli spigoli dei mobili e il fondo scivoloso delle scale mi hanno fatto rischiare diverse cadute rovinose, come quando, nel circuito del bagno, uscendo dalla doccia con i piedi bagnati sono scivolato all’indietro sfiorando la tazza del cesso con la testa. Ma, almeno, in casa, non ci sono buchette. Poi, ho messo i cuscini del divano nel water e ho proseguito in sicurezza.
Qui, invece, sembra tutto rimasto come prima. Al contrario di quello che si trova a casa, l’aria è ossigenata mentre l’acqua non lo è e il solo gesto di respirare a pieni polmoni mi disinfetta le vie respiratorie. Solo la primavera è avanzata a grandi passi verso l’estate. I miei capelli cercano di stare al passo rispuntando timidamente ma qui i fiori sono ormai tutti sbocciati, con i petali spalancati alla massima apertura ad aspettare di essere fecondati: gli asfodeli fanno di tutto per essere notati ergendosi in cima ai loro lunghi steli, il cisto fiorito si sporge arrivando perfino ad accoppiarsi con i peli delle mie gambe, la lavanda spande fluidi inebrianti per richiamare i pollini degli amanti. Mi tolgo la maglia. I raggi di sole sbattono contro la pelle nuda facendomi quasi il solletico; la brezza mi soffia affettuosamente sui peli del petto, la natura mi abbraccia, ridandomi quelle sensazioni di pelle che, a parte qualche abbraccio clandestino, mi sono mancate così tanto nel periodo della reclusione. La pelle, dalle labbra alla pianta del piede, trasmette sensazioni impossibili da descrivere ed insostituibili se ci si vuole sentire vivi.
Torno a casa con quella sensazione di euforia che hanno gli innamorati dopo il primo bacio dell’amata. Sono stato baciato dalla natura ed è stato un bacio lungo e appassionato che mi illumina dentro e mi terrà vivo almeno fino alla prossima uscita; dopodomani, abbiamo già appuntamento e l’attesa sarà breve, piena com’è di ricordi e aspettative.
Intanto il materiale obbligatorio è rimasto così com’era, intatto, come sempre. È già lì tutto pronto per la prossima uscita, a parte … fra poco scadono, dovrò comprare una scatola nuova.

martedì 31 marzo 2020

Covid19 – la mia piccola idea per il futuro remoto.


L’idea della clusterizzazione descritta qui:  (link) non nasce per caso. Credo sia un buon punto di partenza per ripensare anche al dopo-virus e riportare equilibrio in un mondo dominato dal caos.

Viviamo in un sistema instabile, iperdinamico, dominato dai vortici dell’economia che siamo tutti chiamati a far girare. Basta allora una qualsiasi variabile impazzita, anche minuscola come un virus, per mandare in crisi il sistema e travolgere le nostre vite, fisicamente, socialmente o psicologicamente. Per uscirne, bisognerebbe provare a cambiare il sistema, a riprenderne il controllo per ritrovare condizioni di equilibrio.
L’equilibrio comporta stazionarietà, che non vuol dire immobilità ma movimenti lenti e controllati. La fluido-dinamica insegna che, per limitare fluttuazioni e turbolenze, bisogna aumentare la “viscosità” del sistema, ovvero la forza delle interazioni locali. Dal punto di vista sociale, ciò significherebbe aumentare le relazioni con i nostri prossimi e l’attaccamento al territorio.
Mi viene da pensare ad un’organizzazione sociale a “cluster”, in cui quasi tutta la socialità diretta avvenga all’interno di una cerchia di persone ben definita territorialmente e in questo stesso territorio si producano buona parte delle risorse, dall’agro-alimentare all’energia. L’anima dell’uomo – le idee, la cultura, il progresso – invece viaggerebbe liberamente in tutto il pianeta, con la sua leggerezza immateriale veicolata dalla tecnologia.
Ridurre drasticamente i viaggi non vuol dire rinunciare a curiosità e conoscenza di ciò che è fuori. Credo si possa conoscere meglio un posto, la sua cultura e la sua gente, imparando la loro lingua e comunicando in remoto con loro, entrando nelle loro case o cavalcando le loro montagne con occhi e orecchie virtuali, piuttosto che andando in un villaggio turistico. Mancherebbero gli odori i sapori e le sensazioni della pelle ma forse potremmo rinunciarci o forse in futuro la tecnologia potrebbe aiutarci anche in questo.
Equilibrio vuol dire anche minimizzare gli spostamenti delle risorse. Vuol dire che quasi sicuramente dovremo rinunciare a molti beni materiali ma che altre parti del mondo ne avrebbero di più. Ricordiamo, fino all’altroieri, la migrazione di uomini che seguiva la migrazione delle risorse; non diminuirebbero solo i viaggi di piacere ma anche quelli della disperazione.
L’equilibrio, ovviamente, dovrebbe esserci anche nel bilancio con le risorse del pianeta, energetiche in primis, ma questo è già stato ampiamente detto e ripetuto da altri.
Equilibrio vuol dire anche ripensare all’organizzazione sociale. I soldi e l’economia dovrebbero tornare ad essere una modalità di scambio e non uno scopo di vita. Se la società è fondata sul lavoro, allora, il “lavoro” a cui si fa riferimento non dovrebbe essere più inteso come tutte le attività che fanno girare il gran vortice maledetto dell’economia ma come quelle che fanno funzionare la società. Cuocere il pane ma anche fare figli ed educarli; produrre farmaci e curare i malati ma anche diminuirne il numero organizzando attività sportive. Pensate solo al valore sociale inestimabile che ha una maternità e invece a come viene considerata ora per il solo fatto di non essere fonte di reddito. L’equilibrio fra i sessi verrebbe raggiunto molto più naturalmente valorizzando la maternità piuttosto che imponendo una percentuale femminile in inutili attività manageriali.

L’equilibrio del pianeta si può raggiungere però solo se ne troviamo uno personale, se riusciamo ad essere più attaccati alla realtà, alla nostra fisicità, a goderci quello che abbiamo intorno e a capire che si vive meglio con poche risorse ma con tutto il tempo per usarle bene che nella frenesia di ammucchiare roba senza neanche avere il tempo per utilizzarla.

lunedì 30 marzo 2020

Covid19 – la mia piccola idea per il futuro prossimo.

Per evitare il disastro sanitario e la morte di milioni di persone, la strategia più seguita dai governi mondiali consiste nel rallentare la diffusione del virus tramite restrizioni nei movimenti della popolazione; tale strategia sembra parzialmente efficace, ha però il difetto di dover essere protratta in forma più o meno severa, fino al momento in cui sia disponibile un vaccino (si parla di oltre un anno). Un anno in cui il mondo si fermerà (o quasi). Cioè, il mondo continuerà a girare indifferente. Sarà l’uomo a doversi fermare, o quasi. Come passeremo quest’anno? Cosa potremo fare?
Una strategia che potrebbe funzionare per riprendere progressivamente e parzialmente le attività produttive e sociali, è la “clusterizzazione” della società, ovvero la costruzione di “strisce tagliafuoco” che separino territorialmente varie comunità (cluster). In pratica, invece di tracciare una striscia tagliafuoco intorno ad ognuno di noi, come da decreti ministeriali, se ne traccerebbero meno, ma più marcate, per separare i territori (per esempio, ma non necessariamente, quelli comunali). In assenza di casi di contagio, tutte le attività interne al cluster, comprese quelle produttive ed educative, potrebbero essere portate avanti senza nessun rischio. Riaprirebbero negozi e ristoranti, attività sportive ed educative, seppure riservate ai residenti. Chi ha un posto di lavoro o chi studia al di fuori del suo territorio, per poter riprendere l’attività dovrebbe trovare il modo di trasferirsi temporaneamente nel territorio in cui lavora o studia. I collegamenti fisici fra le diverse comunità, invece, dovrebbero essere ridotti al minimo ed estremamente controllati dal punto di vista sanitario, riservati a “trasportatori” regolarmente “tamponati” e forniti di presidi di sicurezza adeguati. L’anima dell’uomo – le idee, la cultura, il progresso – invece viaggerebbe liberamente in tutto il pianeta, con la sua leggerezza immateriale. 
In questo modo, pur riprendendo tutte le attività “locali”, la diffusione del virus sarebbe resa più lenta dalle barriere fisiche inter-cluster. Ovviamente, appena si scoprisse un caso all’interno di una comunità, dovrebbe riprendere l’isolamento individuale all’interno di essa ma, intanto, si libererebbe una buona percentuale della popolazione e molte attività potrebbero ripartire. 
Ecco, questa è la mia piccola idea; potrebbe non funzionare ma si potrebbe fare una semplice 
 simulazione per verificarlo; non sarà un granché, ma nel silenzio assoluto, almeno è un’idea.

mercoledì 25 marzo 2020

L'ora illegale



Emergenza Covid19, prevista un’ulteriore stretta. Conte: “Anche l’ora quest’anno sarà illegale”.
Molti italiani, con la subdola intenzione di abbreviare la quarantena, si sveglieranno alle 2 di notte del 28 marzo per spostare furtivamente in avanti di un’ora le lancette dell’orologio. Per evitare che questi furbetti, potenzialmente positivi asintomatici, con i loro spostamenti d’ora possano impestare il futuro di tutti i cittadini che passeranno da lì un’ora dopo, saranno vietati tutti gli spostamenti di aghi, lancette e affini se non “per urgenti e validi motivi”. Conte ha anticipato oggi in conferenza stampa i contenuti del decreto che uscirà domani all’ora del tè, chiarendone anche le motivazioni tecnico-scientifiche: "è inutile controllare gli spostamenti nello spazio se non si controllano anche quelli nel tempo. Come ci ha insegnato Einstein è nello spazio-tempo che si muovono i virus ed è ora di aggiornare la legislazione a tale evidenza scientifica”. Saranno istituiti posti di blocco per controllare orologi e cellulari ed eventuali spostamenti d’ora non giustificati saranno puniti con l’arresto dell’orologio dai 2 ai 4 mesi, tempo che andrà quindi ad aggiungersi al periodo di quarantena.
Noi ci uniamo all’appello del premier. Sappiamo che rinunciare all’ora legale, vuol dire rinunciare anche alla legalità dei minuti e dei secondi contenuti in essa ma ci stringiamo intorno a questa Nazione in ginocchio e, con senso civico e patriottismo, lasciamo che sia lo Stato a controllare e misurare il tempo per noi. Viva l’Italia!

martedì 24 marzo 2020

Sputi – Trail e covid19



Premesso che, per “etica”, in estrema sintesi, intendo il “vivere bene”, vorrei fare un piccolo ragionamento etico su un tema che sta polarizzando il web e che mi coinvolge personalmente.
Come sportivo e appassionato della natura, cosa dovrei fare per “vivere bene” nella situazione molto particolare in cui ci troviamo?
Un primo decreto prevedeva la possibilità di fare attività all’aria aperta “purché mantenendo la distanza minima di un metro fra le persone”. Questo decreto, dal punto di vista etico, è perfetto perché lascia tutta la libertà possibile in una situazione in cui bisogna evitare in tutti i modi di diffondere un virus e quel cerchio di un metro che ci si deve portare intorno è tutta e sola la limitazione alla nostra libertà necessaria per evitare di contribuire allo sviluppo del contagio.
Dal punto di vista pratico, però, aveva una pecca. Immaginiamo che in una mattinata di sole, 20mila cagliaritani vadano a passeggiare al poetto con il loro cerchio di un metro intorno alla vita. Dopo poco, si troverebbero tutti incastrati nel poco spazio e sarebbero costretti a ridurre il raggio del loro cerchio pur di uscirne, rischiando così il contagio. Lo so, è stupido andare al poetto o in un qualsiasi altro posto che si sa essere affollato con un cerchio di un metro intorno alla vita ma la stupidità esiste e non è una colpa.
Per evitare situazioni di questo tipo, allora, un secondo decreto ha stabilito che l’attività all’aria aperta si possa praticare solo in prossimità della propria abitazione. Questa è un’importante limitazione alla libertà e, se è vero che consente di evitare situazioni come quella descritta sopra, di fatto, impedisce anche di andare in posti più isolati. Accanto alla propria abitazione, infatti, il più delle volte ce ne sono altre e obbligare le persone a rimanere in una zona densamente abitata è negativo anche dal punto di vista sanitario.
Se, allora, le autorità preposte all’osservanza del decreto agissero per l’interesse della comunità, andrebbero a fare i controlli nei posti dove abitualmente si affolla la gente per sanzionare quelli che sono venuti da lontano per strusciarsi fra di loro. Non avrebbe nessun senso etico fare controlli in posti isolati dove non si incontra mai nessuno neanche in periodi di normalità. 
Conclusione? 
Se andassi (notate il condizionale) a correre sui miei soliti percorsi di montagna, lungo i quali, in media, incontro una persona ogni 10km, starei infrangendo una legge ma dal punto di vista etico starei agendo correttamente, per il mio “vivere bene” e senza compromettere in nessun modo quello degli altri; nessuna autorità che agisse per il bene comune dovrebbe sanzionarmi.
Immagino già la domanda: “e se tutti facessero come te?” Per cui ne anticipo la risposta: “sarebbe bello!” Sarebbe bello che 100mila cagliaritani fossero in grado di “affollare” i 1000km quadrati del sulcis, come lo faccio io. Sarebbero 100mila persone più sane e più felici e ognuno avrebbe comunque, in media, 10mila metri quadri tutti per sé; immaginate che cerchio! Ogni qualche centinaio di metri ne incontrerei uno, un saluto a distanza, un sorriso e via. Purtroppo, ora non riesco ad immaginare più di 1000 persone che lo farebbero; dovrò darmi da fare per diffondere questa passione.






domenica 15 marzo 2020

Questa è casa mia.

Accetto volentieri l’invito a restare a casa, a passare il tempo esplorando le stanze, le pareti, i bagni, corridoi e salotti. Questo territorio è casa mia, così lo sentivo e lo sento ancora di più ora. Lo amo e mi rende felice. È lui, il territorio, l’unica cosa che ci può tirare fuori da questa crisi. Lui non viene neanche scalfito dai virus e se si resta attaccati ad esso se ne esce vivi e pieni d’idee. È lui il nostro unico riparo contro i mostri moderni. I virus lo temono. Preferiscono chi viaggia, amano i voli low cost, i viaggi d’affari, le crociere. È bello viaggiare, visitare posti diversi ma non è necessario. Ogni territorio contiene in sé talmente tanti particolari che basta chinarsi ad osservare o spostarsi dal sentiero principale per fare continue scoperte. Se non si viaggiasse, i virus, invece, da pandemici verrebbero degradati ad endemici e si annoierebbero a morte, fino al suicidio.
Anche l’economia globale, quel mostro che, pur di non rallentare, ci vorrebbe gregge per fermare il virus con la nostra pelle, teme i territori. Li vorrebbe trasformare per sfruttarli e poi buttarli via. Sa che è da lì, dai territori, dall’amore di chi li vive come sono e ne ricava risorse “locali”, che viene un rischio al suo dominio. Se l’umanità si svegliasse e si attaccasse al territorio, ognuno al proprio, non per campanilismo ma per amore della natura, allora potrebbe riuscire a sgonfiare quel mostro ed evitare le catastrofi sociali, sanitarie e climatiche che stiamo vivendo e che ci si prospettano sempre più forti e frequenti nel futuro. Come tutte le crisi, anche questa nasconde un’opportunità: non aspettiamo con impazienza che “tutto torni come prima” ma approfittiamone, come individui e come umanità, per ridefinire cosa vogliamo che torni e cosa no.
“Questa è casa mia”, è qui che si coglie l’essenza della vita, che si può riprendere il controllo della propria esistenza e decidere se si vuole continuare a vivere come criceti a far girare la ruota dell’economia o vivere ed agire per il bene di sé e di chi ci sta intorno.

lunedì 9 marzo 2020

Quarantena

Ieri sera si è saputo che coronavirus è passato in visita, sia pure fugace, al CRS4 e per questa settimana non si va al lavoro. La prudenza mi consiglia di starmene da solo. Conosco un posto dove stare solo per bene ma mi servono cesoie per arrivarci. Mentre mi reco al brico ad acquistarle, incontro un amico che non vedevo da anni. Gli chiedo di restare ad un paio di metri di distanza, mentre ci parliamo. Saluto con un colpetto di pugno sulla spalla e parto.
In meno di un’ora sono a is cioffus. Voglio provare a risalire il canalone sulla destra per sbucare a s’arcu ’e Antoni Sanna. So che si può fare, ho visto tracce su wikiloc. Ci avevo provato oltre un anno fa andando a sbattere contro muri di rovi e di rocce. È arrivato il momento di sfogare la curiosità e riprovare. Trovo qualche segno di passaggio umano – rovi tranciati, ometti di pietra – ma sono flebili e mezzi nascosti da giovani rovi rigogliosi. La traccia non la ho perché il mio gps ha trovato riposo fra qualche cespuglio sulla cresta del Conchioru e allora procedo come un esploratore d’altri tempi, seguendo grossomodo il corso del riu is cioffus fra giungle di rovi e di oleandri, enormi alberi selvatici dall’aria aggressiva, grossi massi e con le pareti del canyon che si stringono, allargano, alzano e abbassano con movimenti repentini. Procedo lentamente, fermandomi a cercare i passaggi e a osservare i particolari, i fiori, l’acqua, gli alberi, le rocce, i rapaci che volteggiano sulla mia testa; qualche volta mi devo aiutare con le cesoie ma non trovo grosse difficoltà. Il posto è entusiasmante. Qui la wilderness della parte conosciuta della gola è elevata al quadrato. Il caos domina: le formazioni rocciose sembrano statue cubiste, i rami degli alberi si protendono con estremo disordine, i rovi formano grovigli inestricabili.
Qui i virus non entrano e neanche l’idea di epidemia è riuscita a seguirmi. Una radura concede un po’ di respiro al mio passaggio ma finisce presto. Mi devo infilare in una giungla di oleandri e ne esco di fronte ad una strettoia. Le pareti ai due lati del canyon si avvicinano fino a lasciare un paio di metri di spazio. Credo che sia il posto chiamato “su strintu de Antoni Sanna”. In mezzo scorre il torrente formando una lunga pozza che supera il metro di profondità, chiusa in fondo da una cascatella.
La parete a sinistra sembra abbordabile e provo ad arrampicarmi. A 3 metri mi trovo in difficoltà con le rocce bagnate molto scivolose. Non riesco a tornare indietro e sono costretto a salire non senza qualche rischio fin dove la pendenza diminuisce. Sono molto inquieto, non credo che riuscirei a riscendere da lì. Spero di trovare l’uscita verso l’alto ma non trovo vie facili né tracce di passaggio umano. Ormai sono lì tanto vale godermi i panorami e fare qualche foto prima di provare a mettermi in salvo. Per scrupolo, verifico che il segnale del cellulare sia assente. Non mi resta che provare a scendere. Decido di avventurarmi in un punto dove la discesa è po’ più ripida ma asciutta. Imparo che gli appigli per le mani non devono essere necessariamente a scalino; basta una sporgenza, su cui agganciare le dita, anche da sotto, per poter scendere col piede in cerca di un appoggio ed eventualmente riportarlo su se l’appoggio non ci fosse. Ecco, anche oggi ho imparato qualcosa, non c’è miglior maestro che cercare di sopravvivere. Riesco a scendere senza troppi rischi, tiro un grosso respiro di sollievo e festeggio la riuscita decidendo di affrontare la gola di petto. Ed è infatti fino al petto che mi arriva l’acqua nei punti più profondi della pozza. In fondo c’è un salto di roccia di un paio di metri che forma una bellissima cascatella. Le rocce sono scivolosissime.
Dovrei tirarmi su a forza di braccia attaccato ad un fusto di oleandro. Ma cosa troverò più su? Riuscirò a trovare un’uscita in alto o, se no, a riscendere? Sono fradicio, il cielo è vagamente minaccioso e decido che per oggi può anche bastare. Mi immergo di nuovo nell’acqua gelida per riattraversare la pozza e rientro senza eccessive difficoltà a is cioffus e poi all’auto. Quando sono a 200 metri dall’auto incomincia a piovere e sulla via del rientro, il coronavirus torna ad incombere minaccioso sull’umanità ma io sono ancora vivo. Estremamente vivo.

venerdì 14 febbraio 2020

Il trail del compleanno.

Il 9 febbraio è il giorno del mio compleanno. Sono 55, più o meno. La precisione non è importante. Mi basta sapere che devo arrivare a 100 e che ho superato la metà. Ora è tutto in discesa ma la stanchezza comincia a farsi sentire. Qualcuno lo sa e mi sprona ad andare avanti facendomi gli auguri. Voglio festeggiare, qui, ma preferisco che sia la solita festa della natura e dello sport e non una ricorrenza. Non sono uno preciso che guarda i numeri scattare al polso, anzi, vivo e corro a “polso nudo”. Per la mia reticenza, l’eco della notizia del giorno è soffocata e la voce non si diffonde. Sono in tanti qui al raduno per la partenza. Mi vedono, ne sono contenti e mi festeggiano anche senza sapere che sono arrivato ad un numero tondo. E mentre sto ancora parlando con atleti della gara corta che parte mezz’ora dopo, quelli della lunga vengono chiamati per il breefing. Mi devo ancora cambiare ma l’esperienza di triatleta mi aiuta a fare un cambio veloce; a dire il vero, nei cambi sono sempre stato un disastro ma oggi sono un lampo e riesco ad arrivare sulla linea di partenza prima del via.
Sono intorno al 55esimo, dicevo. Il cuore ha subito una degenerazione e per arrivare a 100 ho dovuto rallentare. Anche oggi, infatti, invece di battagliare con i primi, seguirò gli ultimi come chiudi-pista. Mi guardo intorno: Francesca, Roberta … vedo anche Donatella che potrebbe farmi compagnia. Comunque sarà una piacevole compagnia femminile che è una cosa che gradisco. Tasto le tasche bucate dello zainetto e mi accorgo di non avere la radio. Devo rientrare a recuperarla. Ricordo quella volta all’x-terra che stavo uscendo dalla zona cambio per la frazione di corsa con il casco ancora allacciato. Gara rovinata? Niente affatto. Ero in gara, come sempre, per divertirmi e quel contrattempo l’aveva resa ancora più divertente. Basta guardarsi da fuori e ridere dentro e, anche oggi, dagli occhi e dalla bocca mi scappa un sorriso solitario a tradire la risata interiore. Ne approfitto per prendermi una piccola pausa dal mio non-agonismo forzato, tolgo il freno e mi diverto a correre veloce con i piedi che fanno la molla, i polmoni che fanno il pieno d’aria profumata, il cuore che pompa … devo arrivare a 100, meglio non esagerare. Recupero la radio che avevo dimenticato sul tettuccio dell’auto e riparto 10 minuti dopo la prima partenza. L’inseguimento finisce presto e con Francesca iniziamo a salire verso la bella cresta che segue lo spartiacque fra guttureddu e gutturu mannu. Il sentiero avanza arioso e panoramico con divertenti saliscendi fra rocce e corbezzoli. Lo conosco bene. Anche ieri ero qui a pulire e segnare il percorso. Ieri, oggi , domani … voglio arrivare a 100 circondato da posti belli e da belle persone, per questo oggi sono qui. Via via che avanziamo, ci superano i primi 20 della gara corta; poi i percorsi si separano e restiamo soli, io e Francesca, circondati dalla natura meravigliosa; tutto è piacevole e il tempo passa veloce. Non sembrerebbe neanche di essere in una gara, non fosse per il fantasma di Roberta che ci precede e che evochiamo, chiedendo ai volontari da quanto sia passata: “5 minuti – non più di 10 – 3 o 4 minuti”. È uno spirito sfuggente e non lascia tracce certe. Per un istante mi appare anche qualche centinaia di metri avanti ma come è apparsa, la visione sparisce. Poi la sento evocare alla radio: “la n. 22 è passata alla postazione dell’ultimo km”. Non ce la faremo mai a raggiungerla … a meno che … a 200 metri dall’arrivo la vediamo che cammina poco avanti a noi. Questa volta è proprio lei, lì, reale. Forza Francesca! Parte uno sprint al rallentatore per il penultimo posto. Il vantaggio è però incolmabile e arriviamo ultimi che, del resto, è la mia condanna.
Arrivo ma non sono arrivato. Non faccio in tempo a fermarmi che ho già una birra in mano. Devo arrivare a 100 e ho ancora molto da correre, da festeggiare, da vivere. E si continua qui con gli amici, quelli che sanno e quelli che non sanno e proseguirò domani, poi la settimana prossima … devo arrivare a 100 e la strada è ancora lunga ma si prospetta meravigliosa.
Foto di Arnaldo Aru

mercoledì 29 gennaio 2020

World Day for Speed Limit

Oggi doveva essere la “giornata mondiale del limite di velocità”. Non c’è altra spiegazione: non ho mai visto così tanto rispetto per quei cartelli tristi e sparati, spesso orfani, abbandonati dopo la fine di lavori stradali. Venendo al lavoro, ho incontrato ben 3 auto diverse che andavano, con tutta la fila dietro, alla velocità segnata sul cartello,  proprio come se quei numeri fossero messi lì sul serio! 50? Ma come hanno fatto a crederci? Pazzesco!
Dai, forse però, un giorno all’anno si può fare o, almeno, ci si può provare.