Stamattina, per dare continuità all'uscita nel regno dei bruchi, cercando un filo logico che ancora mi sfugge, ho fatto una lunga corsa in montagna.
Per non fare tutta la strada da solo
mando un messaggio: appuntamento alle 6:30 alla biglietteria del WWF.
Con mia sorpresa hanno risposto in 6. Avrò compagnia però solo per
il primo chilometro, poi all'imbocco del sentiero, gli altri
preferiscono procedere per la sterrata. Dopo la prima dura rampa che
affronto con rispettosa lentezza, il sentiero scorre piacevolissimo,
su e giù lungo la linea di cresta, pulito e segnato di fresco. I
bruchi non ci sono quasi più. È rimasto qualche filo ricordo e
migliaia di farfalle che svolazzano alla rinfusa. Dopo quattro
chilometri di cresta scelgo di tornare sulla carrozzabile per fare
qualche chilometro in più. Appena lasciato il sentiero, rilasso la
concentrazione e mentre mi soffio il naso mi ritrovo per terra.
Due-tre secondi per riprendermi dalla botta e mi rialzo. Dalla mano
al gomito c'è una traccia continua rossa di sangue; il maggior
fastidio viene però dalla botta al fianco destro che sentirò lungo
tutte le salite del giorno, comprese le scale di casa. Potrei
rientrare ma, senza neanche pensarci, proseguo sulla strada prevista.
Trovo acqua alla sorgente di su Suergiu che credevo secca e ne
approfitto per lavare le ferite. Potrebbe essere anche un buon punto
di riferimento se dovessi finire il litro e mezzo di liquidi che ho
con me. Poco più su, al passo, vedo una segnaletica nuova fiammante
che indica un sentiero per il monte Lattias, che con i suoi 1100
metri è fra i più alti del Sulcis e forse il più spettacolare con
la sua imponente cresta rocciosa. Non ci sono mai stato e mi lascio
incantare. Il giro che avevo progettato mi serviva solo come traccia
e decido di lasciarlo per seguire quei segni che dopo un breve tratto
di carrareccia mi guidano in ripida salita lungo tracce di sentiero.
È impossibile correre e procedo a passo spedito. Superato un
montarozzo dal nome altisonante di “monte su tronu”, il sentiero
diventa bellissimo, sempre più tecnico sale in mezzo a spunzoni di
roccia. Sotto c'è un panorama immenso e sopra, avvolte da nuvole
nere, si avvicinano le cime del Lattias. Si è alzato anche un bel
vento fresco e c'è aria di temporale. Comincio a dubitare di
arrivare su, temo grandine e fulmini oltre che il fondo roccioso
scivoloso. Continuo a salire ancora per qualche minuto, l'attrazione
è forte ma il tempo peggiora a vista d'occhio e raggiunto un
bellissimo punto panoramico decido che questa è la mia meta. Appena
inizio la discesa arriva la pioggia; niente temporale, solo una
gradevole e freschissima pioggia estiva. Ho quasi freddo, è un lusso
a fine giugno ed è molto meglio del caldo che temevo. Dopo tre
quarti d'ora di evasione, sono tornato sull'itinerario previsto e su
terreno noto. Sceso alla sorgente di Fanebas, la prossima salita è
su una comoda forestale e la faccio tutta correndo. Sono stanco ma
non troppo e il mal di gambe non mi impedisce di godermi i paesaggi.
Dopo una ripida discesa un po' sconnessa e spaccagambe, arrivo a
Gambarussa. Per il finale mi sono riservato la parte più tecnica.
Attraversata la provinciale, mi infilo nel sentierino che risale,
tutto in sottobosco, su fondo di terra smossa dai cinghiali, pieno di
grosse pietre rotolate dai fianchi del monte, fino alla linea di
cresta che separa gutturu mannu da guttureddu dove ritroverò il
primo sentiero percorso stamattina. Ogni tanto corricchio ma più
spesso cammino. Sembra un calvario. Come gesù metto tre volte i miei
stanchi piedi in fallo. Vorrei appoggiare le mani alle cosce per
aiutarmi nella spinta ma la destra mi fa male per le escoriazioni
ricordo della caduta. Continuo a salire avvolto, come per tutta la
giornata, dall'assoluta assenza dell'uomo. Non sono solo però, sento
un grugnito e vedo 4-5 cinghialetti che attraversano il sentiero, poi
altri tre che lo attraversano in direzione opposta. Avanzo molto
lentamente e con gli occhi bene aperti per evitare di passare in
mezzo fra i piccoli e le loro madri. Con un'interminabile sequela di
piccoli tornanti, raggiungo la cresta. Un tuono accompagna un altro
scroscio di pioggia. Nonostante la stanchezza, mi diverto ancora,
quasi come 5 ore prima, fra i panoramici saliscendi di questo
splendido sentiero. L'ultima discesa invece mi fa male a cosce e
ginocchia e devo concentrarmi per non cadere di nuovo, ma ormai è
finita. Un ultimo chilometro su comoda sterrata e sono alla macchina.
40 km con 2000m di dislivello.
Dall'alba all'ora di pranzo: 5h45 di fatica. Sono caduto una volta
più di Cristo, ho le stimmate sulla mano destra e zoppico ancora per
la botta all'anca. Perché l'ho fatto? Forse dovrei trovarmi una gara
per giustificare agli occhi degli amici podisti tutta questa
sofferenza ma la realtà è che l'ho fatto perché questa roba qui mi
piace.
Poi, va beh, forse qualcosa ne salterà
fuori, e non saranno cavallette.
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