Trans 1 – time 7:23, place 2315
Le transizioni per me sono anche
metamorfosi: mi godo il sollievo di aver finito la frazione
precedente con un momento di relax nel bozzolo prima di cominciare la
successiva. Questa è una delle ragioni per cui, in media, ci metto il
doppio degli altri. L'altra ragione è che sono incapace. Questa volta, per esempio, dopo aver sfilato la muta quasi completamente
dalla gamba sinistra, mi sono accorto che era bloccata alla caviglia
e, solo allora, mi sono ricordato di avere legato la fascia del chip
sopra di essa. Ho dovuto allora infilare la mano nel rotolo di
neoprene e, alla cieca, cercare lo “strap” della fascia per
slacciarla e finalmente ho potuto sfilare la muta. Liberatomi dal
bozzolo di neoprene, corricchio verso la mia bici; la riconosco da
lontano, troneggiante nel deserto della zona cambio. Con estrema
calma indosso casco, guanti, pettorale e scarpe, prendo la bici,
accendo il garmin e parto.
Bike – time 5:48:54, place 1153
Pasticcio un po' con i tasti
del garmin per leggere l'ora. Sono le 8 e 53. Ora so che fra nuoto e
transizione ho impiegato quasi 1h40. È un tempo lunghissimo ma
temevo anche peggio. Un grande zero troneggia in mezzo allo schermo:
è la frequenza cardiaca. O sono morto oppure ho dimenticato la
fascia cardio. Mi tocco il petto e verifico che, per fortuna, è vera
la seconda. Il contachilometri è partito: finalmente posso smettere
di guardare lo schermo e pedalare davvero. La penosa fatica del nuoto
è un ricordo lontano. Valeva la pena soffrire così a lungo nella
frazione di nuoto? Sembra di sì: rinascere è bellissimo. Ora le
gambe girano bene, facili e avanzo con eleganza e velocità
attraverso questo fluido impalpabile. Qualcuno mi supera ma sono più
quelli che sorpasso io. Non devo strafare, so di essere poco
allenato. La strada è in continuo saliscendi e alcuni di quelli che
mi superano in pianura o in discesa approfittando delle super bici da
crono, li ripasso io in salita per poi vedergli di nuovo la schiena
nel prossimo piattone in una serie di sorpassi-controsorpassi che mi
tiene compagnia. Leggo nomi ormai noti sulle schiene e mi fa piacere
rivederli anche se non li ho mai visti in faccia. La media è buona,
intorno ai 33 km/h e mi sto avvantaggiando sul tempo previsto di 6
ore. Ogni 20 chilometri circa c'è un ristoro. Acqua, banane, gel,
sali, barrette … ogni volta prendo qualcosa per reintegrare almeno
in parte le energie consumate. L'apertura innovativa dei gel mi
sorprende inondandomi i guantini.
Quando si passa dai paesi o
sulle salite più ripide il pubblico offre uno spettacolo davvero
entusiasmante. Se poi tolgo le mani dal manubrio e mi tiro su per
salutare il pubblico con un gesto, le urla raddoppiano con effetto
esilarante. Poco oltre il sessantesimo mi supera Andrea, partito 25
minuti dopo di me; non mi vede e tira dritto. Lo chiamo e, senza
sforzo eccessivo, con un breve allungo mi affianco a lui per
scambiare due parole. Mi guardo indietro per assicurarmi che non
stiano arrivando giudici proprio in quei 10 secondi. Mi dice che ha
paura di stare andando troppo veloce. Sta facendo una super gara e lo
incito a proseguire. Avrei un buon margine ma preferisco non
seguirlo.
Sulla salita del “solar
hill” si raccoglie il massimo della folla. Non si vede l'asfalto:
la gente copre tutta la strada e si apre solo al passaggio dei
ciclisti! Sarebbe entusiasmante se si potesse pedalare a tutta,
invece si procede in lenta fila indiana e la carica di adrenalina che
mi da il pubblico invece di scaricarla sui pedali la devo inghiottire
restando in fila come alle poste.
Comincio a sentire un po' di
stanchezza. Mancano ancora cento km e ho già perso tutta la
freschezza. Poco prima del novantesimo inizia il secondo giro. I
chilometri ora girano molto più lentamente e mi sento a disagio
sulla bici. Dolorini alla schiena, al collo e alle braccia mi
obbligano spesso a cambiare posizione. Con le mani appiccicose di gel
prendere cose dalle taschine strette del body è molto difficile.
Vado comunque ancora veloce, il vento spinge alle spalle ma non
supero quasi più nessuno e, fra quei pochi, quasi solo donne. Provo
a rispondere alle incitazioni del pubblico ma mi esce solo un sorriso
storto; invece di alzarmi a salutare il pubblico come durante il
primo giro, ora riesco solo ad alzare i pollici. La stanchezza
aumenta progressivamente e i dolori anche. Si fanno sentire anche i
residui della gastroenterite che, risvegliata probabilmente da dosi
eccessive di gel o sali, mi obbliga ogni tanto ad alzare il sedere di
sella per sfiatare. Il percorso gira e il vento diventa contrario.
Intorno al km 120 cominciano a bruciarmi i piedi e faranno sempre più
male. Intorno al 150 mi iniziano a venire piccoli crampi alle cosce e
sono costretto a rallentare ulteriormente. Il divertimento è finito
da un pezzo. La mancanza di allenamento si paga così, con la
sofferenza: hai fatto la bella vita? Ora soffri. Devo solo resistere.
Sono quasi sicuro che ce la farò a finire, probabilmente entro le 6
ore, ma spero poi di riuscire a rialzarmi e a correre; non ne sono
sicuro con i piedi che fanno davvero male, i crampi alle cosce e i
dolori alla schiena. Vedremo. Per fortuna il traguardo anticipa di
oltre un chilometro i 180 previsti – un ritardo non l'avrei
sopportato. Ho la lucidità di sfilare le scarpe negli ultimi metri
lasciandole attaccate alla bici, poi scendo, lascio la bici ad un
volontario e mi avvio camminando zoppicante per il mal di piedi verso
la tenda del cambio. Riuscirò a rinascere ancora?
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